DI VENTO E DI SABBIA (MAURITANIA)
di Giulia Tabacco
1° Premio Narrativa
"Per le veloci, ma precise, descrizioni dell’ambiente come inquadrature di un film che tessono il racconto dei silenziosi riti legati alla sopravvivenza di una natura apparentemente vuota e ostile. Per la poetica rappresentazione del ruolo dei due elementi, il vento e la sabbia, che disegnano, ritagliano, definiscono e riempiono la scena del deserto, resi con originale ed estroso approccio narrativo capace di ricreare immagini vive con pochi efficaci tratti di penna".
Milanese di nascita, Giulia Tabacco collabora con case editrici e realtà culturali e sociali. All’amore per i libri unisce quello per i viaggi; nel suo andare alterna cammini ed esperienze di lavoro, spesso volontario. Ha realizzato reportage indipendenti in Medio Oriente, India, Senegal e Australia, centrati in prevalenza su aspetti sociali, culturali e artistici. Attualmente gestisce un rifugio negli Appennini liguri.
I mauritani parlano poco e sono vestiti di vento.
Bianchi, azzurri, blu, gli uomini; lilla, verdi, a fiori, a rombi, le donne. Quando camminano le stoffe si alzano, si arricciano, si gonfiano. I tessuti chiudono le teste: quelle degli uomini con un turbante, che contorna il mento come una ghirlanda e sale fino al naso, quelle delle donne con un velo che passa dietro le spalle, va giù per la schiena poi torna fino ai capelli.
Per forza si coprono, è una questione di numeri.
75.
75% del loro Paese è sabbia. Ci sono più grani di sabbia che di couscous, e più dei datteri freschi in agosto, più degli arbusti aguzzi che sgranocchiano le capre, più delle parole che compongono le preghiere. In un Paese di sabbia l’unica è coprirsi. Per non dire del sole e del vento. Il sole è di un bianco che fa male agli occhi e l’aria smeriglia la pelle: è per l’aria che hanno inventato questi abitoni che coprono facendo al contempo volare i contorni. Per lasciarla passare. Il vento trasforma le persone in navi, il deserto pare un mare ocra solcato da barche colorate: di quelle barche i corpi sono gli alberi, i piedi le ancore, gli abiti le vele.
I mauritani parlano poco perché sabbia e vento si infiltrano nel naso e nei pensieri. Parlano poco perché il Sahara è grande.
Salima di mestiere fa il nomade. Ha tre cammelli e due dozzine di capre, una tenda per dormire e un’altra, larga e aperta davanti, per riposare. Quando arriva l’ora della preghiera si toglie le scarpe e si passa le mani sui piedi nudi, poi si accarezza i palmi l’uno con l’altro: non c’è acqua per le abluzioni, allora le mima. Cuoce il pane sotto la cenere, prepara il tè e lo versa tre volte, ha un’accetta sotto la sella del cammello e con quella taglia la legna per il fuoco.
Con lui nel deserto trovo alberelli contornati da pallini gialli profumati che a toccarli si sfaldano tra le dita. Li guardo, li annuso, li accarezzo, li riconosco. È mimosa. Mimosa gialla nel Sahara, con l’aggiunta delle spine: ma qui è normale, qui ogni arbusto al posto delle foglie ha aculei bianchi e affilati. Intendiamoci, è probabile che abbia un altro nome, la pianta che ci dà un’ipotesi di riparo quando il sole è troppo intenso: per me, però, è lei, il simbolo dell’otto marzo, della festa delle donne. Una ricorrenza che quaggiù nessuno ha mai sentito nominare: ma io, che la festeggio da tutta la vita, mi emoziono, perché siamo all’inizio di marzo e questo vuol dire che i fiori gialli sbocciano nello stesso tempo in Liguria e in Mauritania, anche se tra qui e Savona ci sono 5.200 chilometri.
“Nutrimento per gli animali ce n’è?”, domando a Salima una sera al tramonto. “Così”, risponde guardando gli arbusti rinsecchiti.
L’ho detto che i mauritani parlano poco: preferiscono starsene dritti davanti alla terra baluginante, sono dei gran guardiani dell’orizzonte. Roba da far ammattire noi che alla sabbia che screpola le rughe non siamo abituati: cosa vuoi dire, Salima? Così così, così abbastanza, così neanche un po’? Ma lui sta zitto, immobile di fronte al sole, che finalmente non è più un neon infinito. Finché a un tratto dice: “Vedi laggiù, proprio davanti ai tuoi occhi. Là vanno gli animali”.
Fa una pausa.
“C’è una pozza d’acqua. È verde, fresca, buona. C’è sempre, non si estingue mai.” Allora capisco che nella lingua del Paese della sabbia che scivola tra le dita, delle genti che compiono gesti essenziali e precisi, mai uno di troppo, mai uno di meno, mi ha risposto. Di più: mi ha detto una cosa importante. Mi ha mostrato dove si trova la vita.
AL MONDO
di Alessandro Pierfederici
2° Premio Narrativa
Nato a Genova, cresciuto a un passo dalla battigia, Alessandro Pierfederici è da sempre appassionato di libri e scrittura, tanto che "per poter essere padrone della mia immaginazione" ha rinunciato a una carriera da ingegnere per diventare un traduttore, un mestiere che gli ha permesso "di vivere in tanti posti diversi, così tanti da essere diventato allergico ai traslochi e ai bagagli". Oggi si è stabilito nel Chianti e ogni giorno sente la mancanza del mare.
Kisa si chiamava. “Corto”, in turco. Ma, del marinaio di carta, aveva ben poco. Basso e tarchiato, era un uomo fatto di vino e sigarette economiche che nascondeva sotto il cappello alla Gavroche di lana sbiadita. Come nei giorni precedenti, eravamo gli unici clienti seduti ai tavolini del piccolo ristorante a ridosso del porticciolo di pescatori. Oltre la spiaggia di ciottoli che si stendeva a pochi passi da noi, il meltemi si divertiva a stuzzicare le onde che rispondevano alle provocazioni con nervosi sbuffi di spuma bianca.
Avevo conosciuto Kisa proprio qui, per caso, e pranzare allo stesso tavolo era diventata presto un’abitudine. Imparando a intrecciare i fili spezzati del mio greco incerto e quelli del suo inglese malfermo, avevo capito che era stato un pescatore in gioventù e molte altre cose dopo. Ora si lamentava di essere solo un vecchio che guardava il cielo con occhi pieni di ricordi.
Portai alle labbra il bicchierino colmo di caffè. L’aroma di bruciato mi riempì le narici, scacciando per un istante l’odore di salsedine.
“Sai, una volta ho viaggiato. Sono andato lontano,” disse Kisa senza preavviso.
Sorpreso, feci la più banale delle domande: “dove?”
“Là,” rispose, puntando un dito tozzo verso la striscia blu cobalto dell’orizzonte. Istintivamente guardai il punto che stava indicando, come se il mare stesse per svelare uno dei suoi segreti. “Sono andato a cercare il mondo, che qui sembrava non arrivare mai.”
“E l’hai trovato?”
Kisa accese una delle sue sigarette gualcite e, tenendola tra l’indice e il medio, aspirò un po’ di fumo. “Non saprei. Sono tornato subito indietro.”
“Perché?”
“Ero giovane, ma ho capito che quello che stavo cercando era troppo complicato per uno come me,” rispose scuotendo la testa.
Guardai il profilo di Kisa e provai affetto per quel volto coriaceo su cui il tempo aveva lasciato segni profondi. E provai vergogna. Io venivo da oltre quell’orizzonte, ero figlio di quella complessità che lo aveva spaventato e di cui probabilmente ero corresponsabile. Pensai all’umanità sempre più chiusa in sé stessa, ossessionata da norme, notiziari ed etichette che diventavano più veri dell’esperienza e alla costante sensazione che non ci fosse più bisogno di andare da nessuna parte. Allora compresi. Credevo di essere venuto in Grecia per ripercorrere le orme di Henry Miller, ora mi accorgevo di essere qui perché avevo paura che non ci fosse davvero più nulla da scoprire, che il mondo fosse oramai ovunque lo stesso.
Kisa emise un piccolo grugnito, quindi gettò la sigaretta a terra e la schiacciò con un piede. “Che pensieri sciocchi,” disse sorridendo, “non fanno bene al cuore.”
Sorrisi di rimando e annuii.
Il vento ora ci scompigliava i capelli e faceva frusciare le tovaglie di carta. Le poche barche colorate dei pescatori scricchiolavano placide al riparo dalle crescenti bizze del Mediterraneo. Kisa fece un cenno alla cameriera che stava apparecchiando un tavolo poco distante. La ragazza trotterellò all’interno del basso edificio di cemento del ristorante e tornò con una bottiglia di ouzo.
“Ci vuole un brindisi,” disse Kisa, mentre versava il liquido lattiginoso. “Al mondo,” aggiunse con una risata sollevando il bicchiere, “sperando che si dimentichi di questo posto e di questo vecchio.”
UN VIAGGIO
di Riccardo Borghetti
3° Premio Narrativa ex-aequo
Riccardo Borghetti, spezzino, è compositore e autore di oltre 400 canzoni per cantanti italiani e stranieri; ha firmato colonne sonore, sigle per emittenti televisive, jingle pubblicitari per Rai e Mediaset. È stato autore televisivo e radiofonico. Insegna chitarra e svolge attività di musicoterapia, oltre a essere docente in progetti musicali.
Non le somigliava, le costava troppo. E allora via, in movimento, mentre io, stanziale, a farmi domande, conoscendo già le risposte. La routine rassicura, ci avvolge nelle sue tiepide spire e ci coccola in lunghi tempi che si ripetono e che finiamo per amare. Avevo creato il mio punto di equilibrio: l'appartamento in centro città proprio sopra all'elegante bar del quartiere, le mie colazioni alla solita tarda ora mattutina, gli incontri con i soliti avventori con scambi di opinioni su tutto, sport, politica, sprazzi di cultura e sguardi malandrini a donne che spesso ricambiavano. Oltre alla mia pigrizia anche l'ego riceveva carezze mentre lei, inconsapevole o, forse no, progettava la fuga per allontanarsi da me, dalla mia polvere, dal mio stagno.
I nostri dialoghi latitavano. Lanciavo, sempre più raramente brandelli di argomenti che non appassionavano né me né lei. Ripensandoci, credo che nel mio intimo paventassi la sua fuga, la mia solitudine, l'abbandono e già allora ne fossi terrorizzato. Un uomo statico e spaventato. Spento. Nel crepuscolo del nostro amore moribondo tra un telegiornale e i nostri commenti sfilacciati lei prendeva la chitarra che le avevo regalato secoli fa e intonava una canzone fissandomi con i suoi occhi malinconici. Li rivedo adesso e mi correggo, erano nostalgici. Nostalgia di chissà cosa, di chissà che. Forse la risposta stava in quella sua canzone che ripeteva ossessivamente. Bella melodia ma mi sfuggivano le parole. Un pacato messaggio disperato di una naufraga che lancia S.O.S in un mare tempestoso. Non so dove sia ma so dove raggiungerla. Canticchio la canzone e seguo le parole come fossero la mappa per trovarla:
“Che viaggio che sarà, sarà una bella gita,
giornate di incoscienza e di velocità inaudita,
le notti tiepidissime di brezze marinare
avremo male ai muscoli per tutto quell'andare.
Andare e ritrovarci perché siamo perduti,
che ci attacchiamo al tempo andato sempre più sudati,
ad aspettar qualcosa che non viene e non verrà,
abbiam mangiato tutto e seminato molto poco.
Con i polsini logori e i vestiti demodé
io non ti sto piacendo più e tu non piaci a me,
Il tempo di dormirci su e riprendiamo il viaggio,
scintille, fuoco e incendio non scoppiano per caso
È molto che mi manchi, chissà dove sarai,
tra gesti prevedibili, io sono dove sai
in posti lontanissimi e non c'è niente di peggio
che rimanere immobili e non mettersi più in viaggio.
Mi aspettava.
LA STANZA
di Massimo Spinosa
3° Premio Narrativa ex-aequo
Nato a Napoli, da anni Massimo Spinosa vive a Milano. Laureato in Lettere classiche, ama ascoltare. Giornalista, lavora presso una cooperativa editoriale che gestisce diversi siti di informazione. Gli piace leggere e seguire il calcio.