Quando arrivi a San Benedetto Po straordinariamente in orario, anzi in anticipo, e ti siedi ad aspettare sulle panchine di pietra bianca della piazza il resto della comitiva di pedalatori di Vento ti viene subito da pensare quanto sia sorprendentemente bello questo Paese. Perché, ammettiamolo, non è che San Benedetto sia in cima alle destinazioni turistiche italiane. Anzi, quando entri in paese venendo da Mantova, dopo un'infilata di stalle che ammassano maiali (4 a testa per ogni abitante delle provincia, pare) e la consueta alternanza di campi e capannoni, non è che ti aspetti molto mentre sei accolto tra villette monofamiliari con posto auto interno e argini del fiume incombenti come le mura di una città medievale. E invece poi chiedi per piazza Teofilo Folengo e finisce che sfoci in una piazza che è una sorpresa per quanto è imponente il suo perimetro, ordinati i porticati che la cingono e scenografica la chiesa e l'abbazia di Polirone che le fa da contorno.
E allora fai uno più uno e consideri che certi posti periferici a qualsiasi circuito turistico li puoi conoscere solo e soltanto così: se un giorno decidi che ti metti in sella e piano, piano, pedalata dopo pedalata, ti metti a scoprire l'Italia minore. Quella che finisce sui giornali il giorno in cui ammazzano qualcuno o un terremoto mette sottosopra vite che sembravano destinate a essere ogni giorno uguali. Quella che in questo caso sta aggrappata alle sponde del Po, il grande fiume che si teme come un Dio vendicativo che può dare la morte, ma che si rispetta come un Dio buono, che giorno dopo giorno offre sostanza e sostentamento con le sue acque. E così quando senti gli amministratori locali, sindaci, presidenti di provincia, decisori di ogni ordine e grado dire che Vento è un progetto che potrebbe far uscire dalla tranquillità contadina cui pare aver condannato queste contrade la modernità, ti viene ancor più voglia di metterti a pedalare e scoprire cosa ci sarà sotto l'argine, oltre la curva di là dal fiume.
Mentre pedali, sperando che quelle nuvole lontane cariche d'acqua cambino strada e non decidano di sfogarsi proprio oggi e proprio qui, attraversi questi paesini da qualche centinaio d'anime e qualche migliaio di animali da ingrasso. Paesini che già dai nomi sembrano ancorati dagli anni Settanta, Revere, Quingentole, Borgofranco, Ficarolo. E se poi ti fermi anche in un bar per un chinotto, o forse sarebbe più appropriata una spuma, l'impressione è che gli anni Settanta, quelli dei tavoli di formica e dei linoleum, dei vetri smerigliata e delle bottiglie in esposizione e non in vendita, non siano per nulla passati. Non da queste parti almeno.
E così mentre ci si addentra in un paesaggio che sembra disegnato da un geometra con la passione per le righe nette e le forme definite, tra filari di pioppi che sembrano pedine di una dama infinita, campi di grano arati con la livella, scacchiere di peschi, argini sinuosi come le spire di un serpente, viene da pensare che c'è tutta quest'Italia sincera e tranquilla che meriterebbe di essere vissuta e conosciuta, almeno per poco.
E invece la si ignora bellamente, nonostante sia solo a un passo dalle città allineate lungo la A1 i cui nomi da bambini si sgranano come fossero un rosario, PiacenzaParmaReggioEmiliaModenaBologna. E una pedalata lungo l'argine del Po allora costituisce un punto di vista privilegiato per osservare dall'alto, quasi che si fosse su un balcone con i papaveri al posto dei gerani, tutto questo mondo di mattoni rossi e biciclette, parrocchiali imponenti e statue di Verdi. Così mentre ti perdi in questi pensieri, rinfrescato dalla pioggia che alla fine a metà pomeriggio fa capolino, avanzi chilometro dopo chilometro pedalando sull'argine destro del grande fiume, che gonfio eppure placido scivola silenzioso alla tua sinistra.
E solo quando vedi le costruzioni delle bonifiche di primo Novecento finisce che ti rendi conto di quanto sia più alto di questi paesi il livello del Po e finisce che ti domandi perché li abbiamo costruiti proprio qui, a un metro dall'argine, cinque metri sotto il cielo rappresentato dalla massa d'acqua enorme che scende verso l'Adriatico. E sarebbe bello fermarsi e chiedere agli anziani che se ne stanno seduti al bar Sport, o al circolo dell'Arci cosa ne pensano del fiume, che sentimenti hanno e se non gli piacerebbe vederlo accarezzare in futuro da decine di cicloturisti che lo ridiscendono da Torino alla foce. E davvero andrebbe fatta un'inchiesta così, con la gente del posto: cosa pensa di questi strani pedalatori con carrellino e maglietta tricolore (quelle del Tci) arrancare sulle arginali normalmente preda dei guidatori con la passione per l'acceleratore? Crede che possano rappresentare un futuro diverso e sostenibile per queste lande?
Così, tra un pensiero a quelle pagine di Celati che andava a piedi verso la Foce che uno avrebbe dovuto leggere prima di partire, uno scroscio di pioggia che rinfresca l'aria già fredda e la fatica che si fa sentire all'alba del chilometro 52 e duecento metri, uno neanche si accorge di aver abbandonato l'Oltrepò mantovano ed essere arrivato in Emilia, nel ferrarese. E qui, dove i segni del terremoto sembrano essere maggiori, inizia un altro mondo che sembra maledettamente simile a quello che uno si è lasciato alle spalle. Solo che i segnali che indicano Ferrara sono diventati più frequenti e il cielo ha deciso di dare una tregua, per cui con la luce che si fa calda e i raggi che tagliano da sotto le nuvole sembra tutto più bello. E lo diventa ancor di più quando si inizia a costeggiare il canale Burana che porta diritto, è il caso di dirlo, a Ferrara. Una ciclabile progettata quando ancora pochi progettavano ciclabili, che oggi corre tranquilla e ombreggiata saltando da un lato all'altro del canale sui cui argini pascolano greggi e al cui interno pescano pescatori che forse non sperano di prendere altro che un po' di aria buona. Così gli ultimi dieci chilometri per Ferrara, nonostante la fatica che si fa sentire per il pedalatore urbano da Naviglio, attraversano un paesaggio che ti riconcilia con la campagna. E quando senti dei pavoni in libertà che gridano come se si volessero complimentare con chi pedala da così tanti chilometri torni a pensare quel che avevi pensato sei ore prima a San Benedetto: certo che ci sono posti stupendi in questo Paese. Sono a portata di pedale. Basta volerli cercare e avere Vento in poppa.