La memoria è un dovere: civico, storico, sociale. Ma è anche una necessità umana. Vorremmo dimenticare, ma in verità non ce la facciamo, accantoniamo le cose che non vorremmo ricordare in un angolo delle mente, ma tornano sempre. Specie i traumi. Con Rombo (Iperborea, pag. 272, 18 €) Esther Kinsky vuole ricordare. Non qualcosa che ha vissuto lei, scrittrice tedesca che il 6 maggio 1976 aveva vent’anni e abitava nella sua Germania, ma qualcosa che ha segnato la vita del territorio dove da qualche anno vive, in Friuli.
Una piccola valle a Est del fiume Sella, nel Nord Est, vicino Venzone. Una comunità di un paesino al confine con la Slovenia, una valle specifica ma mai nominata esplicitamente – anche se tutto lasciare pensare che potrebbe essere, così a naso, forse la Val Resia, ma questo importa relativamente – dove da secoli abita una popolazione di protoslavi (non una minoranza slovena rimasta di qua dal confine), con una cultura specifica, fiabe, musiche, balli, un gran carnevale, tradizioni proprie.
Una valle stretta, chiusa, senza orizzonte, con un monte – il severo monte Canin – da cui si vede la pianura, il mare. Una valle dove quel 6 maggio del 1976 si è sentito il rombo. Il rombo è il rumore, la parola esatta usata dei sette protagonisti del racconto per descrivere il boato del terremoto, il suono della terra. Il terremoto non è solo una calamità naturale conseguenza dello spostamento di placche tettoniche, è un disastro: è qualcosa che accade, a suo modo inevitabile perché accade sotto la superficie, qualcosa che segna un prima e un dopo nella vita delle persone, di tutte le persone. Qualcosa che tutti vorrebbero dimenticare, ma non possono. Perché ha rigato le loro vite, perché ha incrinato il paesaggio, ha spaccato il terreno, ha cambiato l’aspetto dei villaggi, la foggia delle case, ha messo a soqquadro famiglie, ha sfaldato comunità, ha cambiato la storia. Un evento la cui memoria, singola e collettiva, è indelebile e necessaria.
Ma come trattarla questa memoria? Alla fine tutti vogliono ricordare e essere ricordati, ed Esther Kinsky dimostra empatia e capacità di ascolto delle persone, che è sempre il punto di partenza di un racconto umano ben fatto. Ma poi? Come si rende questa memoria? Kinsky, cui interessa soprattutto la gente, lo fa costruendo un libro che non è un romanzo, non è un reportage, non è una inchiesta giornalistica, non è un poema, ma è tutto questo insieme. Gli eventi sono raccontati da un coro di sette persone, sette abitanti del villaggio di età diversa che oggi ricordano quel giorno del maggio 1976, le settimane e i mesi successivi, fino al secondo terremoto, di settembre, che in qualche modo affossò la voglia di ricominciare. Ne esce un puzzle di voci, un incastro di memorie, che in parte si accavallano, in parte sono intime. Voci – Adelmo, Silvia, Olga, Gigi, Toni, Mara, Lina – cui si sommano digressioni naturalistiche, estratti di leggende – il mostro Ornolac, la Riba Faronika –, aneddoti storici, osservazioni del paesaggio, descrizioni geologiche, definizioni scientifiche di piante e animali.
A far da collante di tutto la lingua di Esther Kinsky (ben resa dalla traduzione dal tedesco di Silvia Albesano). Una lingua precisa, dettagliata, specifica eppure sempre poetica, evocativa, elegante. Con descrizioni dei paesaggi, che si possono leggere come pesanti cicatrici del passato. Un libro sulla civiltà contadina, su un territorio che è stato ricostruito una prima volta dopo la prima guerra mondiale, una seconda dopo il terremoto. Villaggi un tempo costruiti come alveari, con i cortili uno dentro l’altro, e poi ricostruiti con villette a un piano, separate le une dalle altre per paura che un’altra volta possa crollare tutto: la casa, la vita, le storie. Un libro bello, non c'è altro da aggiungere.
INFORMAZIONI
Rombo, di Esther Kinsky
traduzione di Silvia Albesano
Iperborea, pag. 272, 18 €