L’India è immensa, complessa, impossibile da definire, sempre in evoluzione. Per questo da sempre affascina scrittori e viaggiatori che cercano di coglierne l’essenza, o almeno ci provano. Ci è riuscito Abraham Verghese nel suo ultimo romanzo “Il patto dell’acqua” (edito da Neri Pozza), un’epopea che racconta tre generazioni della stessa famiglia indiana del Kerala attraverso i suoi personaggi e luoghi così intrinsecamente connessi. Abbiamo incontrato l’autore di origine indiana nato in Etiopia, con studi in India e poi negli Stati Uniti dove è diventato medico e poi anche scrittore.
 
Da dove è nata l’idea de Il patto dell’acqua?
Sono cresciuto in Etiopia dove mia mamma lavorava, poi siamo tornati in India e infine ci siamo trasferiti negli Stati Uniti. Mi considero un senza fissa dimora ed è un bene per uno scrittore. Nel mio primo romanzo ho parlato di Etiopia ma ora volevo confrontarmi con le mie origini indiane. Ho trascorso sempre le mie vacanze in Kerala quando ero piccolo ma poi ho cominciato a studiare la storia della mia famiglia e di mia madre soprattutto: una donna eccezionale che si è laureata in fisica e poi da sola e con un figlio è emigrata, prima in Africa e poi nel New Jersey. È stata poi mia nipote Mariam a chiederle di raccontare la sua vita e lei lo ha fatto con dei disegni, da lì è venuta l’ispirazione per il romanzo.
 
Perché il Kerala?
Il Kerala è uno stato molto particolare dell’India. È un posto speciale. Da sempre zona di commerci, soprattutto di spezie, e scambi culturali. I monsoni poi hanno sempre fatto da barriera contro eventuali invasori. E poi c’è la comunità cristiana che la leggenda vuole risalga al passaggio per queste zone nel 52 d.C. di San Tommaso. Insomma un crogiolo culturale affascinante e complesso sia geograficamente che culturalmente. Di grande ispirazione.
 
Le protagoniste del libro sono le donne, come mai?
Mi hanno ispirato le donne della mia famiglia. In india in particolar modo, le donne sono le ancòre delle famiglie, tengono assieme tutto, sia nei momenti difficili, sia in quelli belli. In india la vita di una donna è un percorso a ostacoli sempre, eppure tutto ruota intorno a loro. Io ho voluto partire dalla storia di una ragazzina di 12 anni che si trova a dover sposare un uomo più grande di 30 anni e concludere con sua nipote che, 70 anni dopo, diventa medico. 
 
Che cosa pensa dell’India contemporanea?
Sono preoccupato di come molte democrazie stiano virando verso l’autoritarismo, come in India. Sono felice che il Paese sia diventato una potenza economica mondiale, ma non nego che vorrei fosse più libera. Molte delle persone che conosco e che ci vivono ancora soffrono in quanto minoranze, ma spero che il dialogo con l’Occidente favorisca un’emancipazione del Paese. E sono fiducioso perché gli indiani sono molto più consapevoli ora di un tempo.
 
E Il Kerala è cambiato da quando lo frequentava da bambino?
È lo stato indiano più colto e più si studia più ci si emancipa. È successo anche nelle carceri dove molti reclusi si sono politicizzati studiando. C’era un detto in Kerala che diceva: “vai in prigione da sbronzo e ne esci comunista”, ecco, per tanto tempo è stato così. Ma era inevitabile perché quando gli inglesi se ne sono andati le tanto sperate riforme fondiarie non ci sono state e questo ha creato scontento e impegno politico, anche estremo con frange di terrorismo. Ora per fortuna tutto è più tranquillo anche se il Kerala dovrà affrontare molte questioni in futuro, comprese quelle legate al cambiamento climatico.
 
Prossimo libro in cantiere?
Sono da sempre affascinato dalle storie che connettono l’Etiopia, dove sono cresciuto, e l’Italia. Gli italiani, anche se arrivati da colonizzatori, sono molto amati da sempre, si sono creati dei legami tra etiopi e italiani che sono proseguiti anche dopo. L’idea mi ronza nella testa da un po’, da piccolo parlavo persino un po’ di italiano… chissà se un giorno tutto questo non diventerà un romanzo.