Il 18 novembre 2023 si è tenuto l'evento conclusivo del Premio Chatwin 2023, concorso internazionale di narrativa e fotografia di viaggio organizzato dall'Associazione Culturale Chatwin e patrocinato dal Touring Club Italiano. A questo link la presentazione della serata e tutti i vincitori. Di seguito i racconti vincitori nella sezione Narrativa.

CUORE DI RUGGINE
di Clara Valenzani
1° Premio Narrativa

Biografia. Ho 35 anni e mi occupo di comunicazione. La mia passione è sempre stata la scrittura. Ho studiato Lettere Moderne, pubblicato un racconto e sto frequentando un master in giornalismo presso il Corriere della Sera, gruppo RCS. Vorrei che questo diventasse il mio mestiere. Amo viaggiare in solitaria, principalmente in Asia. L’Est è il mio posto felice. Credo che la narrazione dei luoghi visti sia più efficace se trasmessa tramite la descrizione delle sensazioni, più che con una puntuale cronostoria. Di recente, ho iniziato a esplorare l’ambito audiovisivo creando video-reportage di viaggio che pubblico su YouTube: il progetto si chiama “Oltre la Superficie” e lo scopo non è riportare informazioni turistiche, bensì far scoprire temi, luoghi, storie poco diffuse. Ciò che più mi arricchisce è parlare con le persone, ascoltare stralci di vita, sentire connessioni: in viaggio, questo succede come in nessun’altra situazione. Mi piace vedere l’anima delle cose e mi piace scriverne.

Motivazione. "È evocativa la sua descrizione degli odori, delle voci all’interno del vecchio treno sferragliante che attraversa con il suo carico umano le steppe dell’Asia centrale, collegando tra loro villaggi sperduti nelle grandi distese. L’autrice sa descrivere bene le immagini e sensazioni contrastanti del viaggio: l’estraneità e la familiarità, la stasi e il movimento, il caldo e il freddo, la velocità e la lentezza, il pieno e il vuoto. Ed è vivida l’immagine del tracciato di binari come una “lunga e sottile ferita che non sanguina”, mentre taglia il paesaggio senza tempo di quei luoghi lontani".
 

Le gambe si fanno rotaie, il corpo si allunga. Il treno diventa un’unica, pesante creatura vivente, ma sul vagone i respiri non si uniformano, le vite non si sincronizzano, non avanzano in simbiosi. Nell’ecosistema in marcia ognuno ha i suoi ritmi. Esposti. Come una casa senza pareti.
Procediamo da Almaty, quasi al confine con la Cina, ad Aqtau, sulle rive del Mar Caspio. Tagliamo le steppe del Kazakistan: una ferita che non sanguina, incisa da un bisturi d’acciaio, persa in un universo punteggiato di fili d’erba rinsecchiti. Hanno l’aria appuntita e scomoda. Addosso, questa ferrovia sarebbe un taglio sottile, lungo, come quello creato da un foglio di carta. L’instabile rifugio di lamiera si anima per 53 ore: 3 notti, 2 giorni e poco più, il tempo necessario a percorrere quest'arteria nel sud del centrasia.
Instancabile, l'orchestra di bordo continua ad esibirsi facendo sfoggio della sua anarchia. Qui un colpo di tosse, lì un grugnito durante il sonno. Eléna parla al cellulare, la sua voce sorpassa gli Urali, giunge forte e chiara fino a suo figlio. In questa pianura senza ostacoli, la linea non crepita. La terra dura si intenerisce, il paesaggio scarno è benevolo: non c'è motivo di aumentare la distanza tra i due. Aquile percorrono cieli e suoli sgombri, prestano la loro voce ad Eléna: "Auguri, Dias. Oggi sono 35". "Grazie, mamma". Anche se è lontana, gli occhi d'ambra di lui la vedono. Da quando sono grigie, le sue piume?
Toroton toroton toroton, lo sguardo si perde, il suono ripetitivo delle ruote si fonde coi timpani, sottofondo costante, compagno tra le orecchie. È una musica di ferro ancestrale: il tamburo dei baksy, gli sciamani della steppa. Forse hanno evocato questo riparo improbabile dalla notte dei tempi: il Talgo 077 è un’idea arrugginita, un pachiderma sovietico arrivato fino a noi. Attraversa praterie preistoriche anno dopo anno, provato dagli inverni, rattoppato qua e là; un gigante saldato grezzamente nel clangore di una fabbrica, in una città il cui nome finisce per -irsk. Avanza, macinando km, animato da fragilità umane che scorrono nelle sue vene e lo appesantiscono con destini, speranze, gioie, bagagli emotivi e sacchetti colmi di ruote di pane, pressati nelle cappelliere. Il suo cuore sferraglia, cigola, tartaglia, stride; a volte la sua voce è morbida, rilassante, confortante, altre acuta, nervosa, isterica. A tratti chiede di rallentare, il desiderio sottolineato da un odore acre di freni bruciati. Talvolta sembra troppo stanco per rimettersi in cammino. Eppure, ancora resiste. Incede. Porta nuova linfa in zone dimenticate, pulsa tra pigri villaggi dai nomi sconosciuti. 
Vive.
Kopa, Timur, Aral-Kum, Zylan, e la penultima fermata, Shepte. Eccoci: apro la porta del vagone. Il coro senza direttore si dissolve, riversandosi all’esterno. La cuccetta è pronta ad accogliere nuovi volti: sarà il loro spazio sicuro mentre attraversano luoghi sfuggenti e coni d’ombra, saranno messaggi in bottiglie ben tappate, apparentemente alla deriva in un mare di bassi steli. Storie vergate da mani tremanti d’età o dita ben curate, calamai e stampanti laser.
Scendo. Là in fondo c’è la sabbia bianca e salina del deserto del Mangystau, miraggio ovattato di bianco, oceano giurassico.
Boccheggio inspirando aria umida e salmastra, che si appiccica in gola.
Alle mie spalle, il pomello scrostato risigilla la porta. La casa torna ad avere pareti, le gambe ridiventano carne, sangue, muscolo. Il viaggio sono di nuovo io.
Sotto i piedi, ora la terra è ferma.
Ma sulla banchina, sopra ogni passeggero, aleggia un pezzo di quel cuore di ruggine.

UN SOGNO LUNGO 143 STAZIONI
di Angela Mori
2° Premio Narrativa

Biografia. Quando ero bambina non sapevo neanche se la Terra era rotonda o quadrata, però sapevo che volevo viaggiare. Non avrei mai pensato di realizzare quel sogno. 
Ho dovuto raggiungere l’indipendenza economica per poterlo fare. E da quel momento non ho più smesso. Nemmeno l’artrosi è riuscita a fermarmi. Ci ha provato solo la pandemia. Ma per un po'.
Ho 58 anni. Tra un viaggio e l’altro lavoro in un bellissimo Museo.

“... e non scendi mai? “
In tanti mi hanno fatto questa domanda prima di partire.
“No, non scenderò”.
In realtà ogni tanto scendo. Alle stazioni dove il treno si ferma per pochi minuti, scendo per sgranchirmi le gambe. Avanti e indietro sul marciapiede del binario come fanno i condannati a morte, mi guardo intorno, scatto una foto, a volte compro qualcosa da mangiare, ma soprattutto tengo d’occhio Galina. E lei tiene d’occhio me. Quando incrocio l’orologio col suo sorriso capisco che è il momento di risalire. 
Galina ha i capelli rossi che sono sempre in piega. E’ la “provodnitsa” del vagone 10. Controlla il biglietto quando sali, ti informa sulle regole da rispettare, ti dice quando ci stiamo per avvicinare ad una stazione e quanti sono i minuti “d’aria” di cui puoi godere, accoglie i nuovi passeggeri durante il tragitto, passa l’aspirapolvere al mattino, pulisce i vetri dei finestrini del corridoio e soprattutto regala sorrisi che ti fanno sentire al sicuro.
Stare su un treno per una settimana è un po’ come essere malata e un po’ come essere detenuta. Passi la maggior parte del tempo sdraiata e a sedere condividendo il piccolo spazio dello scompartimento della seconda classe con altre tre persone.
Galina è stata la mia adorabile carceriera, la mia integerrima caposala. 
A Khabararovsk è salita Elena. 
Nelle ultime 36 ore si è aggiunta anche Tamara con la sua passione per la musica, l’Italia e Toto Cutugno.
A Vladivostok, poche ore prima della partenza, ho provato quel senso di angoscia che mi assale ogni volta che devo intraprendere un viaggio. Un’angoscia difficile da accettare.
Poi sono salita sul treno. E quei 6 giorni, 17 ore e 22 minuti che mi aspettavano prima di arrivare a Mosca hanno iniziato a prende corpo.
Temevo di contare i giorni, le ore e i minuti che mi separavano dalla fine di una prova di resistenza. Ho finito per contare i giorni, le ore e i minuti che invece mi separavano dalla fine di un sogno.
Già, il tempo.
Il tempo sulla transiberiana perde i suoi nomi abituali. Non è più lunedì, giovedì o domenica. Non è mattina, pomeriggio o notte. Il tempo assume i nomi delle stazioni in cui si ferma il treno e il numero di minuti di permanenza nelle stesse.
Poi c’è lo spazio.
Nessuna foto, nessun filmato potranno mai restituire la magia dello stare al finestrino ad aspettare quello che verrà dopo. Il paesaggio che cambia in continuazione passando dai boschi fitti di vegetazione alle verdi praterie intervallate da fiumi, ai laghi e pozze d’acqua nate dal disgelo primaverile, alla steppa che termina dove le nuvole cadono a terra, non possono essere trattenute da una foto. C’è sempre qualcosa di più, di nuovo, di diverso che ti aspetta guardando dal finestrino del treno in corsa.
La transiberiana è il paradiso dei pigri. Il paradiso di chi non ha voglia di far niente e per una settimana viene sollevato dall’obbligo morale di fare, parlare, ascoltare, camminare, produrre, occuparsi degli altri e del mondo.
Con Elena abbiamo stabilito da subito un codice di comunicazione fatto di sguardi, gesti e poche parole in russo magicamente riaffiorate dal passato.
A volte mi prende il dizionario, cerca una parola, mi indica il significato. Ci guardiamo, ci aiutiamo con i gesti e da una parola riusciamo a ricostruire dei concetti.
Mi sforzo di capire guardandola mentre mi parla. E non sempre ci riesco. Ma mi piace così.
In tanti mi hanno chiesto prima di partire perché volevo viaggiare sulla transiberiana senza scendere mai.
Perché volevo tutto questo.
Perché volevo incontrare Galina, Elena e Tamara.
E le ho incontrate.

ASPETTO UN TIGLIO
di Andreina De Tomassi
3° Premio Narrativa ex-aequo

Biografia. Sono nata nel 1951, ho una laurea in Sociologia dell’Arte e della Letteratura e un master in Antropologia culturale. Ho lavorato per “La Repubblica” e ho firmato per “L’Espresso” una guida della città di Bari e un saggio collettivo su “la Democrazia Elettronica”. Nel 2003 è uscito “Terra Allegra”, una scelta dei miei articoli di politica agricola. Nel Duemila mi sono trasferita con lo scultore Antonio Sorace nelle Marche, coofondando l’associazione culturale Casa degli Artisti di Sant’Anna del Furlo. Sono stata componente per otto anni della Giuria internazionale di Slow Food per la biodiversità e ho scritto libri legati alla Land Art. L’ultima collaborazione con il mio comune, Fossombrone, è stata l’organizzazione della collettiva “Vai col vento!” ideata come omaggio al Giro d’Italia. Sono impegnata sui temi del Paesaggio, della Land Art, della Fiber Art.

È la solita storia. Il topino di campagna scappa dalla città e quello urbano desidera le sue amate fogne. Forse è il primo viaggio che si compie, dopo la capanna nella foresta: il cittadino va in campagna e il contadino in città. Mondi a confronto, l’esperienza diventa viaggio, stupore, paura, dentro l’antico dissidio tra paesaggio naturale e quello costruito. Ma sarà vero? Quanti viaggi, quante emozioni, domande interiori si sono posti quelli “fuggiti” dalle metropoli e gli altri, quelli “fuggiti” dalla campagna. Solo l’implacabile bilancia dei pro e dei contro decide come e dove stare. 

Prendete me: giornalista, anzi, inviata, “regina della notte”, allegra e sfrontata, divorziata, senza figli, innamorata del suo quartiere romano, Monteverde, che a un certo punto, con il suo compagno, che ama il Furlo dell’infanzia, decide di mollare tutto e a 48 anni approda in un borgo sconosciuto nelle Marche. 
Sant’Anna del Furlo, 10 anime in tutto, su un pianoro boscoso circondato dai monti, e sono solo i Pre Appennini, sullo sfondo, una quinta teatrale maestosa e terrificante, la Gola del Furlo. Sono rimasta tre mesi chiusa in casa. Mi veniva un tremore alle gambe, a uscire. Circondata da querce e frassini, lecci e robinie (i nomi li ho scoperti dopo), silenzio assoluto, solo il borbottio del fiume, connessioni con il mondo? Zero, se non qualche tacca raggiunta “buttandomi” dalla finestra. Non è stato facile. La prima volta che ho incontrato un enorme capriolo ho urlato come un’ossessa, ma anche lui scappò, con un balzo. Mille le prime volte di questa nuova vita, accompagnate dal sorrisetto di Antonio: quando passò sotto casa una coppia di giganteschi istrici, che io credevo fossero grandi come i ricci, un saettante orbettino, serpente verde oro che mi azzerò la salivazione e la parola, o la maledetta vespa calabrone, una delle 36.000 specie aliene, a proposito di cambiamento del clima… Ma il lupo, anzi la lupa con il suo cucciolo, mi ha inchiodata nel boschetto, non avevo mai sentito la colonna vertebrale ondeggiare così, né i peli dritti che volevano uscire dai bulbi; lei ha grugnito qualcosa al suo piccolo e se ne sono andati. Per non parlare dei cinghiali, dell’assiolo che urla di notte, dell’aquila che volteggia sopra la casa… Mi sono abituata. Sono diventata un’amante della natura, conosco i nomi delle piante selvatiche, riconosco qualche fungo, dialogo con il corniolo e gli antichi meli (ho creato un mio pantheon: la quercia davanti casa è mia madre, il ciliegio è mia zia), faccio il verso della cinciallegra... Ora è quando vado in città che ho paura di tutto. 
Intanto a Sant’Anna, dove è nata la Land Art al Furlo, abbiamo creato una strada, è il “Cammino più breve del mondo”, 200 metri, composto da 100 artisti. Un viaggio nel viaggio. I “pellegrini” si divertono, saltellando a piedi scalzi sulle pedane dipinte. E noi? Certo, è svanito lo spirito dei pionieri, all’inizio, pensavamo di fondare un’Arcadia, una Comune di Sognatori, ma non è avvenuto, solo comunità temporanee per il festival settembrino, e poi la Casa nel bosco rimane vuota, solo noi due e la gatta. Quindi, abbiamo deciso di chiudere questa esperienza, questo tragitto lungo 15 anni. È stata una bella avventura. Non siamo dispiaciuti, forse disillusi; l’età avanza e speriamo che il viaggio, la vita, continui a sorprenderci.
Adesso aspetto un Tiglio. Non è facile: scegliere il posto, fare una buca enorme, metterci il letame maturo, una volta l’anno dargli azoto, fosforo, potassio, le potature primaverili, curare le eventuali malattie.
Proprio come noi.

VI SALVERÀ IL FUTURO
di Anna Magli
3° Premio Narrativa ex-aequo

Biografia. Ho 64 anni, sono sposata e ho un figlio di 24 anni. Sono laureata in Comunicazioni di Massa preso l’Università statale di Firenze. In pensione da un anno, ho lavorato per 40 anni nel mondo della comunicazione: agenzie pubblicitarie, enti no profit, emittenti radio e uffici stampa pubblici e privati. Come giornalista ho collaborato con riviste femminili e di costume. Ho cominciato a viaggiare tardi, quando ho potuto disporre di tempo e denaro, e ho capito che quello che mi interessava non erano solo i luoghi ma soprattutto le persone, il loro modo di vivere, le tradizioni, quello che non raccontano i reportage. Ho cercato di inserire in ogni viaggio un incontro ravvicinato con la popolazione locale; da queste esperienze ho tratto la consapevolezza, e forse l’ambizione, di aver compreso i luoghi che ho visitato nella loro interezza. 
 

Ogni venerdì, nell’immensa piazza Naqsh-e jahān, “L’immagine del mondo”, gli iraniani di Isfahan vivono il loro giorno festivo. Picnic ricchi come pranzi di nozze, studenti che vendono scatole intarsiate, bambini che rincorrono una palla mentre il sole infiamma le mattonelle della cupola della moschea Masjed-e Sheikh Lotfollah. Liceali vestite blu notte vogliono un selfie con il turista occidentale: uno dei pochi desideri da esaudire nella loro opaca adolescenza. Eppure sembrano tutti così sereni. Camminano in punta di piedi su una normalità che non esiste e domandano sempre, in modo ossessivo, che cosa l’occidente pensa del popolo iraniano. Ho visto due ragazzi che si tenevano per mano. Mi sono guardata intorno, temendo qualche vecchia della Gasht-e-Ershad pronta a denunciarli.  

È un mondo spavaldo questo Iran di ragazzi e ragazze. Indossano veli leggeri che coprono appena i lunghi capelli curati e sotto lo spesso chador luccicano piercing su ombelichi al vento.  Sono in Iran per inseguire un sogno. Ho letto il diario di un americano tornato in Persia dopo 30 anni, per cercare Hassan, maestro e “padre persiano” della sua fanciullezza.  Dopo un viaggio lungo tutto il Paese lo aveva ritrovato. Anch’io, come Terence Ward, ho percorso autostrade e deserti, per incontrare questi misteri che sono l’Iran e la sua gente. Per capire. Ho visto le rovine di Persepoli, i venditori di petali di rosa a Kashan e Izad Khast la “voluta da Dio”, città di paglia e fango. Shiraz e la tomba di Hafez, il poeta. Gli iraniani amano dire che anche nella casa più povera si trovano almeno due libri: il Corano e le poesie di Hafez. La figlia di Hassan mi viene incontro e mi abbraccia. Sa che conosco la loro storia, che si può fidare. Nella casa dove mi porta la famiglia al completo mi attende per il pranzo. Hassan mi accoglie emozionato, mi fa segno di accomodarmi accanto a lui, per terra, davanti a un piatto fumante di montone. Man mano che arriva il resto della famiglia, i foulard delle donne volano via non appena il portone di casa chiude fuori il mondo. Mi stringono, mi chiedono di raccontargli della mia vita libera. I più anziani, quelli che ancora ricordano, annuiscono. Quando arriva Mehdi, giovane nipote di Hassan, mi alzo per abbracciarlo ma lui gentilmente mi respinge. Hassan gli urla dietro:  “Mehmoon habib-e-Khoda ast!” L’ospite è un dono di Dio! Si scusa, mi dice che di tutta la famiglia Mehdi è il solo integralista. Sento che si vergogna, non è l’immagine del suo mondo che voleva lasciarmi “Il nostro Paese, come la nostra famiglia, è diviso tra speranza e rassegnazione”.  Hassan sospira, sa che i suoi occhi si chiuderanno presto su un fermo immagine d’incertezza dove la vita respira solo fra le mura di casa. 

È quasi sera quando torniamo verso l’albergo. Mi hanno accompagnato tutti, adulti e bambini, il festoso corteo di una giornata che rimarrà per loro memorabile. Sul nostro addio “Ci rivedremo? Inshallah…figlia mia!”  scende il fantasma della rinuncia.  Hassan mi stringe un braccio, la sua voce è accorata: “Parla di noi, racconta a tutti chi siamo. Anche le tue parole aiuteranno a salvarci”.
Penso a quei due adolescenti che sfidano il regime passeggiando con le mani intrecciate per le vie del centro. Saranno quelle mani, vecchio Hassan, padre mio persiano, a salvarvi.  Non noi, occidentali impotenti e inetti. Saranno le mani che si cercano, il piercing appena nascosto dallo chador, il velo a metà testa sui capelli lucidi. Sarà il vostro futuro a farlo.