CUORE DI RUGGINE
di Clara Valenzani
1° Premio Narrativa
Biografia. Ho 35 anni e mi occupo di comunicazione. La mia passione è sempre stata la scrittura. Ho studiato Lettere Moderne, pubblicato un racconto e sto frequentando un master in giornalismo presso il Corriere della Sera, gruppo RCS. Vorrei che questo diventasse il mio mestiere. Amo viaggiare in solitaria, principalmente in Asia. L’Est è il mio posto felice. Credo che la narrazione dei luoghi visti sia più efficace se trasmessa tramite la descrizione delle sensazioni, più che con una puntuale cronostoria. Di recente, ho iniziato a esplorare l’ambito audiovisivo creando video-reportage di viaggio che pubblico su YouTube: il progetto si chiama “Oltre la Superficie” e lo scopo non è riportare informazioni turistiche, bensì far scoprire temi, luoghi, storie poco diffuse. Ciò che più mi arricchisce è parlare con le persone, ascoltare stralci di vita, sentire connessioni: in viaggio, questo succede come in nessun’altra situazione. Mi piace vedere l’anima delle cose e mi piace scriverne.
Motivazione. "È evocativa la sua descrizione degli odori, delle voci all’interno del vecchio treno sferragliante che attraversa con il suo carico umano le steppe dell’Asia centrale, collegando tra loro villaggi sperduti nelle grandi distese. L’autrice sa descrivere bene le immagini e sensazioni contrastanti del viaggio: l’estraneità e la familiarità, la stasi e il movimento, il caldo e il freddo, la velocità e la lentezza, il pieno e il vuoto. Ed è vivida l’immagine del tracciato di binari come una “lunga e sottile ferita che non sanguina”, mentre taglia il paesaggio senza tempo di quei luoghi lontani".
Vive.
Scendo. Là in fondo c’è la sabbia bianca e salina del deserto del Mangystau, miraggio ovattato di bianco, oceano giurassico.
Boccheggio inspirando aria umida e salmastra, che si appiccica in gola.
Alle mie spalle, il pomello scrostato risigilla la porta. La casa torna ad avere pareti, le gambe ridiventano carne, sangue, muscolo. Il viaggio sono di nuovo io.
Sotto i piedi, ora la terra è ferma.
Ma sulla banchina, sopra ogni passeggero, aleggia un pezzo di quel cuore di ruggine.
UN SOGNO LUNGO 143 STAZIONI
di Angela Mori
2° Premio Narrativa
Biografia. Quando ero bambina non sapevo neanche se la Terra era rotonda o quadrata, però sapevo che volevo viaggiare. Non avrei mai pensato di realizzare quel sogno.
Ho dovuto raggiungere l’indipendenza economica per poterlo fare. E da quel momento non ho più smesso. Nemmeno l’artrosi è riuscita a fermarmi. Ci ha provato solo la pandemia. Ma per un po'.
Ho 58 anni. Tra un viaggio e l’altro lavoro in un bellissimo Museo.
“... e non scendi mai? “
In tanti mi hanno fatto questa domanda prima di partire.
“No, non scenderò”.
In realtà ogni tanto scendo. Alle stazioni dove il treno si ferma per pochi minuti, scendo per sgranchirmi le gambe. Avanti e indietro sul marciapiede del binario come fanno i condannati a morte, mi guardo intorno, scatto una foto, a volte compro qualcosa da mangiare, ma soprattutto tengo d’occhio Galina. E lei tiene d’occhio me. Quando incrocio l’orologio col suo sorriso capisco che è il momento di risalire.
Galina ha i capelli rossi che sono sempre in piega. E’ la “provodnitsa” del vagone 10. Controlla il biglietto quando sali, ti informa sulle regole da rispettare, ti dice quando ci stiamo per avvicinare ad una stazione e quanti sono i minuti “d’aria” di cui puoi godere, accoglie i nuovi passeggeri durante il tragitto, passa l’aspirapolvere al mattino, pulisce i vetri dei finestrini del corridoio e soprattutto regala sorrisi che ti fanno sentire al sicuro.
Stare su un treno per una settimana è un po’ come essere malata e un po’ come essere detenuta. Passi la maggior parte del tempo sdraiata e a sedere condividendo il piccolo spazio dello scompartimento della seconda classe con altre tre persone.
Galina è stata la mia adorabile carceriera, la mia integerrima caposala.
A Khabararovsk è salita Elena.
Nelle ultime 36 ore si è aggiunta anche Tamara con la sua passione per la musica, l’Italia e Toto Cutugno.
A Vladivostok, poche ore prima della partenza, ho provato quel senso di angoscia che mi assale ogni volta che devo intraprendere un viaggio. Un’angoscia difficile da accettare.
Poi sono salita sul treno. E quei 6 giorni, 17 ore e 22 minuti che mi aspettavano prima di arrivare a Mosca hanno iniziato a prende corpo.
Temevo di contare i giorni, le ore e i minuti che mi separavano dalla fine di una prova di resistenza. Ho finito per contare i giorni, le ore e i minuti che invece mi separavano dalla fine di un sogno.
Già, il tempo.
Il tempo sulla transiberiana perde i suoi nomi abituali. Non è più lunedì, giovedì o domenica. Non è mattina, pomeriggio o notte. Il tempo assume i nomi delle stazioni in cui si ferma il treno e il numero di minuti di permanenza nelle stesse.
Poi c’è lo spazio.
Nessuna foto, nessun filmato potranno mai restituire la magia dello stare al finestrino ad aspettare quello che verrà dopo. Il paesaggio che cambia in continuazione passando dai boschi fitti di vegetazione alle verdi praterie intervallate da fiumi, ai laghi e pozze d’acqua nate dal disgelo primaverile, alla steppa che termina dove le nuvole cadono a terra, non possono essere trattenute da una foto. C’è sempre qualcosa di più, di nuovo, di diverso che ti aspetta guardando dal finestrino del treno in corsa.
La transiberiana è il paradiso dei pigri. Il paradiso di chi non ha voglia di far niente e per una settimana viene sollevato dall’obbligo morale di fare, parlare, ascoltare, camminare, produrre, occuparsi degli altri e del mondo.
Con Elena abbiamo stabilito da subito un codice di comunicazione fatto di sguardi, gesti e poche parole in russo magicamente riaffiorate dal passato.
A volte mi prende il dizionario, cerca una parola, mi indica il significato. Ci guardiamo, ci aiutiamo con i gesti e da una parola riusciamo a ricostruire dei concetti.
Mi sforzo di capire guardandola mentre mi parla. E non sempre ci riesco. Ma mi piace così.
In tanti mi hanno chiesto prima di partire perché volevo viaggiare sulla transiberiana senza scendere mai.
Perché volevo tutto questo.
Perché volevo incontrare Galina, Elena e Tamara.
E le ho incontrate.
ASPETTO UN TIGLIO
di Andreina De Tomassi
3° Premio Narrativa ex-aequo
Biografia. Sono nata nel 1951, ho una laurea in Sociologia dell’Arte e della Letteratura e un master in Antropologia culturale. Ho lavorato per “La Repubblica” e ho firmato per “L’Espresso” una guida della città di Bari e un saggio collettivo su “la Democrazia Elettronica”. Nel 2003 è uscito “Terra Allegra”, una scelta dei miei articoli di politica agricola. Nel Duemila mi sono trasferita con lo scultore Antonio Sorace nelle Marche, coofondando l’associazione culturale Casa degli Artisti di Sant’Anna del Furlo. Sono stata componente per otto anni della Giuria internazionale di Slow Food per la biodiversità e ho scritto libri legati alla Land Art. L’ultima collaborazione con il mio comune, Fossombrone, è stata l’organizzazione della collettiva “Vai col vento!” ideata come omaggio al Giro d’Italia. Sono impegnata sui temi del Paesaggio, della Land Art, della Fiber Art.
È la solita storia. Il topino di campagna scappa dalla città e quello urbano desidera le sue amate fogne. Forse è il primo viaggio che si compie, dopo la capanna nella foresta: il cittadino va in campagna e il contadino in città. Mondi a confronto, l’esperienza diventa viaggio, stupore, paura, dentro l’antico dissidio tra paesaggio naturale e quello costruito. Ma sarà vero? Quanti viaggi, quante emozioni, domande interiori si sono posti quelli “fuggiti” dalle metropoli e gli altri, quelli “fuggiti” dalla campagna. Solo l’implacabile bilancia dei pro e dei contro decide come e dove stare.
Proprio come noi.
VI SALVERÀ IL FUTURO
di Anna Magli
3° Premio Narrativa ex-aequo
Biografia. Ho 64 anni, sono sposata e ho un figlio di 24 anni. Sono laureata in Comunicazioni di Massa preso l’Università statale di Firenze. In pensione da un anno, ho lavorato per 40 anni nel mondo della comunicazione: agenzie pubblicitarie, enti no profit, emittenti radio e uffici stampa pubblici e privati. Come giornalista ho collaborato con riviste femminili e di costume. Ho cominciato a viaggiare tardi, quando ho potuto disporre di tempo e denaro, e ho capito che quello che mi interessava non erano solo i luoghi ma soprattutto le persone, il loro modo di vivere, le tradizioni, quello che non raccontano i reportage. Ho cercato di inserire in ogni viaggio un incontro ravvicinato con la popolazione locale; da queste esperienze ho tratto la consapevolezza, e forse l’ambizione, di aver compreso i luoghi che ho visitato nella loro interezza.
È un mondo spavaldo questo Iran di ragazzi e ragazze. Indossano veli leggeri che coprono appena i lunghi capelli curati e sotto lo spesso chador luccicano piercing su ombelichi al vento. Sono in Iran per inseguire un sogno. Ho letto il diario di un americano tornato in Persia dopo 30 anni, per cercare Hassan, maestro e “padre persiano” della sua fanciullezza. Dopo un viaggio lungo tutto il Paese lo aveva ritrovato. Anch’io, come Terence Ward, ho percorso autostrade e deserti, per incontrare questi misteri che sono l’Iran e la sua gente. Per capire. Ho visto le rovine di Persepoli, i venditori di petali di rosa a Kashan e Izad Khast la “voluta da Dio”, città di paglia e fango. Shiraz e la tomba di Hafez, il poeta. Gli iraniani amano dire che anche nella casa più povera si trovano almeno due libri: il Corano e le poesie di Hafez. La figlia di Hassan mi viene incontro e mi abbraccia. Sa che conosco la loro storia, che si può fidare. Nella casa dove mi porta la famiglia al completo mi attende per il pranzo. Hassan mi accoglie emozionato, mi fa segno di accomodarmi accanto a lui, per terra, davanti a un piatto fumante di montone. Man mano che arriva il resto della famiglia, i foulard delle donne volano via non appena il portone di casa chiude fuori il mondo. Mi stringono, mi chiedono di raccontargli della mia vita libera. I più anziani, quelli che ancora ricordano, annuiscono. Quando arriva Mehdi, giovane nipote di Hassan, mi alzo per abbracciarlo ma lui gentilmente mi respinge. Hassan gli urla dietro: “Mehmoon habib-e-Khoda ast!” L’ospite è un dono di Dio! Si scusa, mi dice che di tutta la famiglia Mehdi è il solo integralista. Sento che si vergogna, non è l’immagine del suo mondo che voleva lasciarmi “Il nostro Paese, come la nostra famiglia, è diviso tra speranza e rassegnazione”. Hassan sospira, sa che i suoi occhi si chiuderanno presto su un fermo immagine d’incertezza dove la vita respira solo fra le mura di casa.