Neri grovigli di cavi delle rete elettrica in cima ai pali, un’atmosfera da lavori in corso, aria di provvisorietà, cricche di cani randagi come fagotti abbandonati che vagano per le strade poco illuminate, ma anche il lusso sfrenato nelle vetrine di certi negozi centrali, un gusto un po’ pacchiano da simulacro di ricchezza, tutto eccessivo. Come sono eccessivi, fuori scala, assurdi certi palazzi del potere, soprattutto uno: la Casa Poporului.

Ma del resto che cosa non è eccessivo in una città fenice che è stata periodicamente rasa al suolo (da terremoti o dai dittatori) e poi è rinata come Bucarest? Nulla, spiega Margo Rejmer, giornalista e scrittrice polacca che va ad allungare la già nutrita lista di giornalisti e scrittori polacchi che si dedicano con maestria a quel genere diventato orgoglio nazionale che è il reportage letterario. Che poi sia di viaggio, o da fermi, sono questioni che poco contano.

Quel che conta è che Bucarest. Polvere e sangue è proprio un bel libro, che leggi con piacere per imparare come e perché la città di oggi sia figlia della città di ieri, da dove venga un certo disordine architettonico, un caos fatto di casamenti storti che erano sgarruppati fin da nuovi, un caos che un poco spaventa e un poco seduce, una stratificazione storica e sociale che Rejmer investiga e racconta per noi, per quelli che di una città non vogliono vedere solo la facciata, ma capirne la complessità. Pubblicato come tanti altri reportage di autori polacchi da Keller editore, è un libro scritto decisamente bene (tradotto da Marco Vanchetti), anzi a tratti riesce a essere quasi poetico, in certe pagine di descrizioni, sempre interessante, spesso personale, in definitiva assai ricco.
Un libro dedicato alla capitale rumena, che certo non è ricordata per la sua bellezza, ma se fosse bella, bellissima diciamo come Parigi – cui pur per un periodo la sua architettura si è ispirata – chissà che posto noioso che sarebbe. E invece Bucarest è «una Parigi alla rovescia, traballante e sbilenca, fatiscente e scombinata, una Parigi con le gambe all’aria che sgambettano allegramente, una Parigi dopo il passaggio di un tifone». Alla città, o forse al suo racconto, paradossalmente ha giovato e non poco la degenerazione dell’architettura frutto dei deliri di Nicolae Ceaucescu, l’apprendista calzolaio diventato dittatore, nato a 160 chilometri dalla capitale, la cui vicenda e ingordigia ha segnato il Novecento rumeno.

La storia del Conducator è raccontata da Rejmer intrecciandola con le vite dei suoi cittadini e con lo sviluppo di questa città che alla fine, nonostante le manie di grandezza di Ceaucescu che nella sua riedificazione socialista della capitale si ispirava al modello sovietico ma con una preferenza per l’inutile grandiosità fuori scala della Corea del Nord, è difficile dire se sia una piccola città o un grande villaggio. Basta lasciare la arterie centrali, infilarsi nelle viuzze laterali e la città torna campagna, «vedi donne in giro con i fazzoletti in testa e bambini zingari, i cani che si aggirano sul sagrato delle chiese, le galline che beccano in mezzo alla sabbia». La città si arrende ai sobborghi e diventa un luogo diverso, più a misura, solidale e umano; oppure un luogo fatiscente, fatto di palazzi bassi e tarchiati, spazi verdi devastati dove spiccano chioschi dove comprare cose a buon mercato, sigarette sfuse, fermagli per capelli, dolci glassati, bevande in bottigliette di plastica.

Tutto l’opposto dell’architettura più eclatante che ha segnato l’avventura socialista del Paese: la gigantesca Casa del Popolo, oggi sede del Parlamento e di molte altre cose tra cui un museo di arte contemporanea, considerato che l’edificio amministrativo è il più grande d’Europa, secondo per dimensioni solo al Pentagono. Perché alla fine al signor Ceaucescu e signora quello interessava, che fosse grande, che facesse sfoggio di potenza e magnificenza, e pazienza tutto il resto. Così quando vennero invitati i più prestigiosi architetti del Paese a presentare i loro progetti vinse una sconosciuta 28enne da poco laureata alla Facoltà di Architettura. Il suo modellino assomigliava a una torta di compleanno gigantesca, una casa delle bambole con tappeti e lampadari che stuzzicò la fantasia del Presidente e alla fine venne premiato. Risultato: un monolite calato dal cielo, un palazzo che ha un lato di 260 metri, e un altro di 240, alto 86 metri, ma che nei sotterranei arriva fino a 96 metri di profondità. Con 5.100 stanze, un bunker di quattro piani, e una linea privata di metropolitana lunga una decina di chilometri da utilizzare in caso si fosse dovuto evacuare il dittatore.
Alla fine la metropolitana segreta non è servita a salvare il dittatore, che ha fatto la fine che ha fatto, ucciso la notte di Natale del 1989 dopo un tentativo di fuga. Chiudendo una parentesi luttuosa e scadente della vita della Romania, una parentesi in cui si viveva in appartamenti scadenti, in fabbrica si producevano oggetti scadenti e la vita era anch’essa scadente. E da allora la città è ritornata a essere quel dolce e amaro che Rejmer racconta bene, facendoti venire voglia di andare ad assaggiare un po’ di questa città che è come una torta che un suo amico, il professor Jurczak, comprava la domenica per la sua famiglia quando viveva lì: «sembrava fatta di cioccolato e quindi sembrava una cosa dolce, ma aveva una glassatura amara». Dolce e amara, come Bucarest.
INFO.
Bucarest Polvere e sangue
di Margo Rejmer,
Keller editore
pag. 300, 18,50 euro