Mentre il treno avanza lento dal finestrino sempre aperto vedi distintamente l'interno delle case. Puoi quasi puoi toccare i mobili e dare la mano a chi sta seduto per terra a friggere nel wok, salutando con un sorriso subito ricambiato chi ti guarda violare senza offesa l'intimità di una stanza. Normalmente quando viaggi in treno, in Italia, in Europa e ovunque nel mondo, vedi sempre il lato B delle abitazioni: i tinelli sul retro, i cortili spogli, i panni stesi, i garage trascurati. In Birmania, sulla
Circular line, la ferrovia suburbana che fa un intero giro intorno alla ex-capitale Yangon, entri direttamente in casa. Certo, più che abitazioni in mattoni spesso sono capanne di rattan o bugigattoli con tetti in lamiera e pavimento in terra battuta, ma che siano case vive e vissute è fuor di dubbio. Come è fuor di dubbio che sia viva e vissuta tutta questa linea ferroviaria suburbana lunga 46 chilometri costruita nel 1959.
I treni, uno ogni 20 minuti, partono e arrivano dal binario sei della Central Station. Si insinuano nella periferia della città, arrivando a lambire zone industriali e campi allagati, inoltrandosi fino in aperta campagna prima di avvitarsi su se stessi e tornare dove sono partiti quasi tre ore prima.
Un viaggio che non porta da nessuna parte. Un viaggio che permette di inoltrarsi nel ventre di una città affascinante e assai bella da osservare come è Yangon.
YANGON DAL FINESTRINO
Così dal finestrino capita di vedere
monaci buddisti che oziano su una panca, o forse sono intenti a meditare; monache vestite di grigio chiaro che camminano con la ciotola in mano. E poi musulmani che si lavano i piedi prima di entrare in moschea e una miriade di donne e uomini che camminano, fanno acquisti, mangiano, contrattano, cucinano, discutono, dormono. In una parola, vivono. Tutto questo in un paesaggio dominato da banani da cui penzolano banane annerite; manghi senza frutto che l'inverno non è stagione; alberi rigogliosi e bambù altrettanto rigogliosi e bambù tagliati di fresco pronti a diventare impalcature per nuovi palazzi in costruzione. E poi qualche immenso, quieto, bayan – l'albero sotto cui Buddha ricevette l'illuminazione – alla cui ombra qualcuno cerca qualche forma di illuminazione terrena, o forse solo un po' di tregua dalla calura che cresce.
Sul treno, nel vagone che altrove si direbbe di prima classe ma qui è “soft”, ovvero con il sedile non in legno, oggi ci sono sei turisti, di cui una coppia di ragazze tedesche e due anziani americani che ogni trenta secondi esplodono in un “Amazing”. E poi due poliziotti senza altre armi che non siano l'autorità impressa dalla loro divisa grigia e blu, un controllore vestito con una camicia bianca e un longy verde, che controlla i biglietti (grandi e scritti a mano) ai sei stranieri, che a loro volta sono controllati dai poliziotti che vigilano perché non gli succeda nulla. Oltre a loro, nello stesso vagone una signora ben vestita che si sventola con un ventaglio, una famiglia che sorride per le fotografie, un uomo che dorme nascosto sotto il giornale e un anziano signore con la camicia bianca che si spulcia un orecchio e sbadiglia.
VIAGGIANDO A 10 KM L'ORA
Quello di stamattina è un treno senza nome e senza numero, partito in perfetto orario alle 11.30 dalla Central Station di Yangon, costruzione coloniale rosa dall'umidità dei tropici come tutte le case e tutti i palazzi di questa città umida e d'altri tempi. Un treno che non ha porte: nè nel vagone “soft” né negli altri, quelli normali, con le panche in legno. Per cui la gente sale e scende quasi in corsa. Anzi sarebbe meglio dire al passo. Tanto la velocità è talmente irrisoria che non si rischia certo di farsi male. E così, lentamente, questo treno suburbano che altrove in Asia sarebbe pieno di persone silenziose con la testa immersa dentro uno smartphone intenti a giocare a BubbleBubble o a guardare una serie tv con le cuffie alle orecchie, è popolato di gente ancora legge avidamente i quotidiani, guarda dal finestrino, chiacchiera con il vicino. Fuori sfilano in processione campi allagati eppur coltivati a verdure che come il radicchio sembrano crescere sull'acqua, baracche di legno, qualche fabbrica arrugginita, passaggi a livello manuali, stazioncine scolorite rosso ocra, mercati che sembrano improvvisati ma saranno lì da sempre. Tutto a una velocità costante che sarà si e no di 10 all'ora.
Le poche volte che accelera il treno a gasolio inizia a rullare, quasi fosse una nave in mezzo al mare. Ma l'ebrezza della velocità dura poco, pochissimo. Le stazioni in questo percorso circolare sono tante e ogni poco ci si ferma. E allora sale qualcuno con il suo carico di fiori, frutta, verdure, carne rossa e carne bianca. Tutto spesso comprato qualche istante prima al mercato che si trova esattamente sui binari, come alla stazione di Insein. Qui per terra è uno stuolo di bancarelle che vendono di tutto e di più, ma soprattutto cibo fresco. Ceste di meloni, banane, cocchi verdi, e poi tagli carne, mazzi fiori, un numero incredibile di verdure di ogni forma e colore. E poi spaghetti in ciotole di plastica, zuppe in sacchetti di plastica e bevande varie in contenitori che poi finiranno a lato della massicciata, dove immondizia si somma a immondizia.
Tutto questo mondo in movimento è animato da signore con i capelli corvini e le gote impiastricciate di polvere di un giallo pallido, quasi beige: polvere di sandalo usata per proteggersi dal sole, ma anche per bellezza. Una cipria ecologica e tradizionale, che non manca quasi mai sul volto delle donne birmane. Come non mancano i sorrisi, dispensati in abbondanza e con costanza. E non mancano neanche bracciali, collane e orecchini d'oro, che sono l'unica forma di risparmio concepita, considerato anche la frequenza con cui negli ultimi decenni le banche sono state chiuse e nazionalizzate. E non mancano mai per terra neanche
i segni rossi del betel, la noce leggermente allucinogena che in Birmania quasi tutti masticano continuamente. Sputando quanto ruminato dove capita, lasciando ovunque queste macchie rosse che sembrano sangue rinsecchito. Macchie che adorno quegli stessi marciapiedi su cui vedi in attesa donne con l'ombrello avvolte in grosse giacche di lana e con il cappello in testa. Che in questi giorni è quasi inverno anche a Yangon, lo dice il calendario. Certo, ci sono 24 gradi, ma per queste terre fa quasi freddo. E poi se appesa al muro l'autorità dice che è inverno bisognerà pur crederci.
LA FINE DI UN'EPOCA
Ora tutto questo forse finirà. Da qualche mese in città parlano di sostituire alcuni dei treni in servizio, che hanno l'età della ferrovia, quasi 60 anni, con delle nuove carrozze dotate di aria condizionata e porte automatiche. Sono importate, di seconda mano, dal Giappone. Ma con questi nuovi treni quasi moderni il biglietto aumenterà: per ora costa 100 kyat (meno di dieci centesimi) per chi usa i vagoni con le panche in legno e 200 kyats per chi usa quelli soft (gli stranieri pagano 4 dollari). Un problema per la maggior parte dei 90mila utenti quotidiani, persone che appartengono alle classi più povere di una città di per sé povera. Persone per cui il Circular train con suo rollare e stridere di metalli rappresenta di gran lunga il mezzo di trasporto meno caro per arrivare in centro. Persone che dalla finestra di casa, ogni giorno, tutto il giorno, vedono passare il treno che collega le viscere di Yangon.
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