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Trieste è talmente bella che è difficile non lasciarsi affascinare. «Ma spesso ci si limita al primo sguardo, ci si fa prendere dal mito asburgico, che è il più facilmente leggibile e a portata di mano: dalla regolarità del Borgo Teresiano alla grande piazza Unità che si affaccia sul mare, dalla fantastica storia della città e della principessa Sissi, alla cultura dei caffè che erano rinomati ritrovi di letterati. Un mito che vive anche nella città di carta, quella di Svevo e di Joyce. Ma così facendo si dimentica tutto il resto, il sostrato che è la vera sostanza di Trieste» spiega Federica Manzon, scrittrice nata a Pordenone, ma che vive tra Trieste e Milano, e che è stata scelta per dar vita ai percorsi d’autore della nuova edizione della Guida Verde Trieste.
Ce lo si dimentica perché, nonostante tutto, Trieste è ancora una città geograficamente lontana – difficile da raggiungere –, ma anche difficile da inquadrare. «Rimane una città lontana, spesso incompresa, pochissimo conosciuta. Durante la sua storia è stata separata dal resto del Paese, quasi quasi non tutti sanno che è in Italia. Di certo tanti ne ignorano la specificità, difficile da mappare» prosegue Manzon. Specificità di essere una città duplice, con due o forse anche più anime. «Aveva ragione Gillo Dorfles a dire che Trieste è una città dell’interno che si affaccia sul mare. Se si segue il mito del porto dell’impero asburgico si dimentica l’anima balcanica di Trieste, che è stata l’affaccio sul mare di un vasto retroterra slavo, qualcosa che ha fatto di Trieste una città davvero plurale, dall’anima balcanica, dove coesistevano e ancora coesistono tante diversità culturali» spiega.
Trieste, Canal Grande / foto Shutterstock
Una città in cui in poche centinaia di metri trovi sinagoghe e chiese cattoliche, serbo ortodosse e greco ortodosse, tutte attive e frequentate. «Trieste ci dà un grande insegnamento: non è necessario assimilare le diversità, si possono mantenere, farle convivere, lasciarle conflittuali, purché tolleranti. Questo genera un tessuto interessante, un’unione nella differenza che rende questa una città ancora mista, in cui non ci sono monumenti del passato come mere tracce architettoniche, ma comunità vive che portano ancora a far respirare quell’aria di confine che è la sua particolarità».
Un modo di vivere la storia e le differenze culturali che potrebbe essere replicato altrove, in futuro. Del resto «lo storico Raul Pupo dice che per tutto il Novecento Trieste è stata un laboratorio di storia e politica, ha anticipato i tempi». Eppure tutta questa ricchezza non sembra sfruttata a pieno. «C’è forse un certo snobismo, per cui non ci si riveste di questa patina di città multiculturale: siamo abituati, non c’è una retorica positiva che punti a valorizzare questa ricchezza: è sempre stato così, non ce lo raccontiamo». E così tante peculiarità della città finiscono per passare in secondo piano.
La statua di Joyce a Ponte Rosso, sul Canal Grande / foto Shutterstock
«La città ha una tradizione infinita di cultura, per tanti è assolutamente normale leggere, in tre, quattro, cinque lingue, perché sono eredi di un cosmopolitismo reale, concreto. Eppure nonostante questo non ci sono oggi tante cose nuove, come se ci fosse poca spinta a sfruttare e far fruttare questa particolarità di essere a cavallo tra confini e culture» racconta. «È come se ci fosse una consapevolezza, molto triestina della fugacità del vivere. Le cose sono prese sul serio, ma non troppo perché ormai c’è una sorta di fatalismo: le cose cambiano, anche troppo alla svelta. In questo la turbolenta storia del Novecento ha un grande impatto sulle coscienze: le leggi razziali, la Risiera di San Sabba, la divisione andata avanti per anni sono stati segni forti sulla città e la sua cultura. Ora c’è un modo diverso di intendere la vita, più godereccia, edonistica, ormai Trieste è un posto in cui anche i malati terminali sono abbronzati. E questa consapevolezza della fugacità è un tratto che contribuisce decisamente alla sua letterarietà».
Trieste / foto Shutterstock
Già, perché comunque Trieste rimane una città di cui si scrive tanto. «Vero, c’è comunque tantissimo su Trieste. Qui c’è una certa familiarità con una frequentazione dell’animo, grandi letterati del passato ma anche in tempi recenti. C’è la percezione che tutti scrivano e abbiano una certa dimestichezza delle arti, tutti grandi di una grandezza latente. Questo è un tratto veramente reale della città: chiunque va a teatro, quale che sia il suo gruppo sociale di appartenenza, anche nei rioni popolari. Mi capita spesso di incontrare al bar, o al parco signori anziani che discutono degli eventi dall’attualità con una manifesta volontà di capire, di essere aggiornati dei cambiamenti. Qui c’è una maggiore familiarità con la cultura».
Trieste / foto Shutterstock
Ma Trieste è comunque molto di più che una città di carta che coltiva il proprio mito disconosciuto: è una citta plurale e peculiare, e per questo affascinante. Ma per cogliere questo spirito di Trieste dove si deve andare? «Bisogna andare al rione San Giacomo – racconta Manzon –, in piazza di Campo San Giacomo si coglie il lato popolare di tutto questo, qui si mescolano minoranze vecchie e nuove, in una zona che non è periferia, perché siamo nel cuore della città. Ma è tutto molto bello, molto vivo, in una zona piacevole che si affaccia sul porto nuovo. Peccato che i turisti non ci vadano, si fermano alle rovine sotto San Giusto e non curiosano poco oltre». Altrimenti la traccia di questa diversità si trova a tavola, tra osmize e buffet. «Il buffet, che non è un bar e non è un ristorante, è forse il vero luogo della fusione: trovi tutto, dai sardoni fritti al gulasch, gli gnocchi di pane e il cotto caldo in crosta con il kren: è un posto multiculturale, che ha conservato un po’ l’anima e la ruvidezza della città».
Primo spaccio delle Cooperative Operaie di Trieste aperto a San Giacomo nel 1903
Mentre per cogliere l’anima slava bisogna salire sul Carso, appena alle spalle della città e visitare le osmize, che sono qualcosa di più di semplici agriturismi, ma una vera tradizione austroungarica. «Sono abbastanza genuine anche se non c’è più l’originario obbligo di essere aperti otto giorni all’anno: sono tutte aperte in alternanza, a rotazione. Rimane però la produzione propria, domacjia in sloveno, e un tratto molto ruspante, poco elegante, che non va incontro alle mode culinarie. Dieci anni fa cercavi ancora la frasca per trovarle, adesso sono pubblicizzate, in certe si deve prenotare per la vista mare o stare sotto il glicine, ma a parte questo ancora rimangono come erano, spartane. In quasi tutte mangi le solite cose: uova sode, affettati, formaggi e verdure sott’olio e sott’aceto. I modi sono spicci, meglio ordinare in dialetto o in sloveno. Però sono rimaste un luogo trasversale sia socialmente sia per età, ricchi e meno abbienti hanno ancora quell’abitudine di andarci a fine giornata, a merenda, per ritrovarsi e stare insieme».
Le osmize di Trieste e del Carso
INFORMAZIONI UTILI
Guida Verde Trieste
pag. 168, 19,90 €
soci TCI 15,92 €
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