Orapronobis, certo che quest’anno il Vecchio lassù se la prende comoda, sacramento, non sarebbe male se cadessero un po’ di fiocchi.
Saul guarda il cielo, bluastro come l’acciaio. Paul, con l’amico Georg, è il gestore immaginario di una immaginaria piccola stazione sciistica nei Grigioni, in Svizzera, inventata dallo scrittore romancio Arno Camenisch. I due mandano avanti uno skilift per famiglie, di quelli vecchi, ad ancora, e aspettano la neve. L’ultima neve, che dà il titolo al romanzo.
Di Paul e Georg che stanno con il naso all’insù a pregare che fiocchi è piena l’Italia, anzi: molti stanno messi peggio. «Nel nostro Paese gli impianti dismessi sono 265, nel 2020 erano 132», spiega Vanda Bonardo, responsabile Alpi di Legambiente e coordinatrice del dossier NeveDiversa, che ogni anno fa il punto sullo stato delle nostre stazioni sciistiche. «In futuro lo sci non potrà essere praticato come adesso, certamente non nei luoghi dove lo si fa adesso. Il cambiamento climatico incombe, ci confronteremo con inverni meno nevosi in termini di quantità e durata, mentre a livello altimetrico il limite della neve salirà: tra i mille e i duemila metri non si vede un gran futuro», aggiunge.
Ma anche dove nevica sono cambiate le condizioni. Le precipitazioni sono variabili, si sa, ma le serie storiche permettono di individuare la tendenza. E dicono che le nevicate arrivano più tardi in autunno e la neve al suolo fonde in anticipo in primavera. Negli ultimi vent’anni, sostiene una ricerca dell’Università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr, la media annuale di innevamento sulle Alpi è inferiore di 36 giorni a quella registrata negli ultimi 600 anni. «La neve oggi non manca del tutto, ma è diversa: si scioglie», specifica Andrea Omizzolo, ricercatore dell’Eurac di Bolzano. «Sulle Alpi questo colpisce soprattutto gli impianti sotto i 1500/1700 metri. Certo, dipende da fattori ambientali, come l’esposizione della vallata, il vento, la conformazione del terreno ma a quelle quote la neve è destinata a sparire». Per questo da quattro anni Eurac Research porta avanti il progetto BeyondSnow, «pensato per far sì che le destinazioni turistiche a media-bassa altitudine aumentino le capacità di resilienza sociale e ambientale. Ma per farlo – spiega Omizzolo – il punto di partenza è prendere coscienza che c’è un problema». Che sull’Appennino è enorme.

Giuliano Bonanomi, docente del Dipartimento di agraria dell’Università di Napoli con tre colleghi ha prodotto il primo censimento su basi scientifiche delle località sciistiche dell’Appennino. «Su 101 stazioni sciistiche ne abbiamo trovate 28 aperte, 41 chiuse o abbandonate e 32 parzialmente chiuse, ovvero che non hanno aperto in sette degli ultimi 10 anni. Sono 358 chilometri di piste, il 44% del totale. A chiudere in genere sono le località piccole, con pochi chilometri di piste, meno di 7, e datate, con una media di 29,5 anni di esercizio. Tra queste ci sono due stazioni ristrutturate di recente che non hanno mai aperto». Gli anni Settanta e Ottanta sono stati gli anni d’oro dello sci da discesa nel nostro Paese, così d’oro che si sono costruite piste ovunque, dalla Liguria alle Madonie, spesso a quote basse. «Erano anni in cui non c’era percezione del cambiamento climatico, anzi c’era un’idea del raffreddamento globale e tutti volevamo un impianto, persino sul monte Faito nei monti Lattari, in Campania», aggiunge. Lì c’era una seggiovia dismessa già nel 1982 che andava da quota 1100 a 1150 e serviva una pista lunga 500 metri.
Era lo spirito dei tempi, ma adesso i tempi son cambiati. «Per garantire la sostenibilità economica, una stazione sciistica affidabile ha bisogno di un minimo di 100 giorni a stagione con un manto nevoso più profondo di 30 centimetri in sette inverni su dieci», spiega Bonanomi. Alpi o Appennini che siano, queste condizioni sono la regola aurea per le stazioni sciistiche. Condizioni che in questi anni in sempre più località non si verificano. «La neve in Appennino non manca, ma è di difficile gestione, dura molto poco per via dell’altitudine delle stazioni e del rialzo delle temperature. Per arrivare ai 100 giorni per 30 centimetri dovresti programmarla, quella sparata dai cannoni costa 100mila euro per 10 chilometri di piste, ma poi arriva un colpo di scirocco ed evapora. E intanto la tua piccola stazione è andata in fallimento», sintetizza Bonanomi.

Nevica di meno, ma fioccano impianti
Eppure, nonostante la situazione sia ben nota si continuano a fare investimenti irrazionali, ognuno cerca soldi per la propria piccola stazioncina, anche se sarebbe meglio aggregarsi, per ottimizzare le spese e attirare più gente.
Nel 2024 la Legge di Bilancio ha stanziato 148 milioni di euro per sostenere finanziariamente l’ampliamento, la ristrutturazione degli impianti e ripianare i deficit di bilancio di alcune località sciistiche. «Diventano 430 milioni fino al 2028 con i finanziamenti a fondo perduto del Ministero del Turismo per le società che gestiscono impianti a fune», denuncia il dossier NeveDiversa. Cui si aggiungono i soldi stanziati dalle Regioni. La Campania per esempio ha finanziato con 13 milioni di euro il rilancio del comprensorio sciistico di Laceno, nel Comune di Bagnoli Irpino (Av), sono stati rifatti tutti gli impianti, aumentando la portata di seggiovie e skilift che servono 15 chilometri di piste a un’altitudine compresa tra i 1100 e i 1650 metri. Piste chiuse dal 2017. In Sardegna, a Fonni (Nu), i cantieri per la nuova seggiovia che arriva quasi a 1900 metri sono stati avviati l’anno prima, nel 2016. Costata cinque milioni di euro, non è ancora entrata in funzione per mancanza di collaudo.
«Per andare incontro all’elettorato la politica spende cifre spropositate, sostiene l’esistente e non si preoccupa di un nuovo modello di sviluppo della montagna – riassume amaramente Bonardo –. Non si pensa al futuro, si stanziano soldi a fondo perduto. L’industria dello sci ha la necessità di concepire la sua transizione ecologica, invece manca fantasia e per ora ci si affida ai cannoni, con costi ecologici ed economici esorbitanti».

Il futuro? Una montagna 4 stagioni
Ignorata da chi deve decidere, la necessità di un cambiamento è però ben chiara a chi vive sui territori. «Nel 2019 ci siamo chiesti quando come comunità ci saremmo resi responsabili del nostro futuro. Per rispondere a questa domanda abbiamo dato vita al Paganella Future Lab, nato per interpretare lo sviluppo turistico dell’altipiano come forza positiva per costruire la nostra comunità del futuro», racconta Luca D’Angelo, direttore dell’Apt Paganella. «Abbiamo riflettuto con gli operatori turistici ma anche con il resto dei cinquemila residenti della nostra comunità, lo abbiamo fatto per affrontare i cambiamenti climatici che prevedono meno neve, ma anche il ruolo delle nuove generazioni nel quadro di un’economia che qui è ancora a carattere famigliare. Ne è uscita una carta dei valori che si rifà alle vecchie Carte delle Regole medievali, ed è il documento che oggi ci guida. L’assunto filosofico principale è che il bene della comunità è superiore al bene del singolo. Quello pratico è che dobbiamo rompere lo schema dalla stagionalità classica, inverno-estate, e diventare una destinazione senza stagioni, aperta tutto l’anno con un’offerta plurale: sci, camminate, bicicletta, benessere», spiega D’Angelo. Tutto questo accade in una stazione dolomitica dove la neve, per ora, non manca: con 60 chilometri di piste che partono dal paese e un’esposizione buona, che compensa la relativa “altezza” delle piste che non superano i 2100 metri, e riesce a mantenere i circa 150 alberghi dell’altipiano.
«La necessità impellente per le località di media e bassa quota è reinventarsi, ridefinendo la loro offerta turistica, abbandonando la monocultura dello sci da discesa», commenta Maurizio Dematteis, giornalista e ricercatore, autore – con Michele Nardelli – di Inverno Liquido, un reportage dalle Alpi italiane dove si riflette sulla fine della stagione dello sci di massa. «Una stagione – prosegue – che ha permesso a tanti territori montani di emanciparsi dalla povertà, limitando lo spopolamento, creando un nuovo benessere in cui in quattro mesi si faceva il reddito di 12, ma che ha anche portato alla cementificazione delle alte quote con condomini da città, alberghi multipiano e il cieco affidarsi alla monocultura basata sullo sci da discesa».

Un periodo di vacche grasse, che oggi si sta esaurendo. «È stata un’economia molto redditizia per comunità in genere piccole, ma oggi ha dei costi legati alle infrastrutture per la risalita, all’energia per l’innevamento programmato che copre il 98% delle piste delle Alpi, alla mobilità per raggiungere le destinazioni, che va rivista: sono spese non sempre sostenibili, se non si è grandi comprensori», spiega Omizzolo. «L’industria della neve in alta quota ha ancora 20/30 anni, sotto i duemila metri è fallita – prosegue Dematteis –. Ma anche quella dei grandi caroselli come Dolomiti SuperSki o Via Lattea è un’industria che si è trasformata, entrando nell’era globale del turismo invernale. Oggi se si vuole attirare i turisti si devono seguire altre logiche, svincolate dal territorio, che prevedono investimenti in infrastrutture tecnologiche avanzate, alberghi sempre più accoglienti e lussuosi, eventi ed esperienze».
Investimenti continui che solo i comprensori con centinaia di chilometri di piste – il Dolomiti Superski ne ha 1.200, divisi in 12 località collegate tra di loro – possono affrontare, ma che stanno causando problemi opposti, di sovraffollamento. Quest’anno a Madonna di Campiglio hanno introdotto il numero chiuso sulle piste: non più di 14mila sciatori sui 156 chilometri di piste del comprensorio che include Pinzolo e Folgarida-Marileva.
«Mentre altrove gli sciatori languono, il turismo di prossimità legato alle piccole stazioni è in deficit, alcune piccole stazioni vengono assorbite dalle grandi per ripianare i debiti e diminuire la pressione sulle piste, specie delle famiglie e di chi sta imparando», spiega Dematteis. Senza contare che in questi anni c’è comunque stato un cambiamento culturale notevole: la gente scia di meno (in Italia si contano circa 2,5 milioni di praticanti si legge su NeveDiversa) perché costa tanto, tra skipass – in media 70 euro al giorno –, materiali e trasporti per una giornata si spendono centinaia di euro. Ma scia anche meno perché si fanno altre attività, si cammina, ci si dedica al fuori pista, si usano le ciaspole.

Ripensare il modello del turismo montano
«Se c’è un problema, c’è anche un’opportunità da sfruttare. Alle comunità di montagna spesso di poche centinaia di persone, serve un accompagnamento verso il futuro, va spiegato che lo sci da discesa ha una data di scadenza, ma non tutto è perduto se diversifico, se amplio l’offerta. Ci sono margini per riempire il vuoto lasciato dalla monocultura dello sci», dice Omizzolo.
Per esempio, da qualche anno alla Paganella hanno investito sulla bicicletta, creando un Bike park per chi ama le discese temerarie dopo la risalita in funivia. «C’è un interesse elevato nel pubblico, è un buon modo per ridistribuire i flussi nelle stagioni di mezzo dove in genere tutto era chiuso. Ormai per noi l’inverno rappresenta solo il 42% delle presenze, in piena estate abbiamo nove impianti di risalita in funzione», spiega D’Angelo.
La questione allora non è essere pro o contro lo sci, come alle volte sembra riassumersi la discussione, ma come immaginare il futuro. «Investendo sul miglioramento degli impianti per la stagione invernale dove c’è prospettiva – sostiene D’Angelo –, ma investendo anche in tutte le altre stagioni». Che ancora, sembra più facile a dirsi che a farsi. Così lo scorso anno lo Stato ha investito 200 milioni per lo sci da discesa «e solo quattro per il turismo lento», commenta Bonanomi. «Mi rendo conto che non è facile: si chiede agli operatori di pensare a qualcosa che non conoscono, con in più la certezza che a oggi all’orizzonte non c’è un altro sci, capace di muovere le masse e generare reddito. L’alternativa – conclude Dematteis – non è tra il pieno dello sci di massa e il vuoto dell’abbandono, ma un nuovo modo di abitare e vivere la montagna». Senza per forza dover guardare in alto, sperando che, orapronobis, anche questa volta fiocchi.
