Capita alle volte che di ritorno da un viaggio si finisca per domandarsi se ne sia valsa la pena. Non del viaggio specifico, ma del partire per un viaggio-vacanza in senso lato. Ha senso spendere tutti quei soldi per andare due misere settimanelle letteralmente all’altro capo del mondo? Ha senso sobbarcarsi ore di volo e fusi orari, farsi mettere sottosopra lo stomaco e le abitudini per avventurarsi per non più di quindici giorni in un’altra cultura magari agli antipodi della nostra? Che cosa capiamo realmente di un Paese, se non abbiamo neanche il tempo di ambientarci, se i nostri ritmi di viaggio sono peggio di una catena di montaggio e il nostro contatto con gli altri, gli odiosamati locali, è limitato a uno scambio di battute con qualche venditore e un sorriso con l’autista? Insomma, ha senso comprare un biglietto di andata e ritorno per assaporare l’ignoto se non si ha tempo di assaggiarlo veramente?
Se siete appena tornati da un viaggio con una sensazione agrodolce e vi fate queste domande, mettete da parte le fotografie da far guardare agli amici nelle interminabili proiezioni settembrine (lo fate ancora, perché?), e leggete quel che scrive lo scrittore americano Pico Iyer sull’arte di viaggiare e sul perché alla fine ci mettiamo in moto, sempre e comunque. “Per me la prima grande gioia di viaggiare è semplicemente lasciare tutte le mie credenze e le mie certezze a casa, e vedere ogni cosa che pensavo di sapere sotto una luce differente”, scrive Iyer. Insomma, lo straniamento è il vero motore del viaggio. Una straniamento propedeutico alla comprensione dell’altro mondo cui entriamo rumorosamente a far parte. “Viaggiamo inizialmente per perdere noi stessi. E poi viaggiamo per ritrovarci. Per aprire i nostri occhi e imparare di più sul mondo di quello che entra normalmente nelle pagine di un giornale. Viaggiamo per portare quel poco che possiamo, della nostra ignoranza e del nostro sapere, in quelle parti del mondo le cui ricchezze e i saperi sono organizzati in maniera differente. E viaggiamo, in definitiva, per tornare a essere giovani, rallentare lo scorrere del tempo e farcene rapire”, continua Iyer, di cui in italiano si trovano - oramai con qualche difficoltà - due libri di viaggio (C’era una volta l’Oriente, Neri Pozza, e Il monaco e la signora, Feltrinelli) e un libro intervista al Dalai Lama (La strada aperta, Neri Pozza). In definitiva, secondo Iyer “viaggiare è ancora il modo migliore che abbiamo per ritrovare l’umanità dei luoghi e salvarli dall’astrazione e dall’ideologia”.
Posizione da sposare in toto, soprattutto se lo si riesce a far per più di due settimane. Ma spesso non si può e tocca accontentarsi: allora non rimane che accettare i propri sconvolgimenti e appropriarsi di questa frase di Camus: “Quello che dà valore a un viaggio è la paura”.
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