"Dove comincia l’Abruzzo?" si sono chiesti in un libro di qualche anno fa Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, che nella nuova Guida Verde Abruzzo invitano i lettori nei ritmi compassati di una regione “intrisa di tempo”, come ebbe a dire Giorgio Manganelli, centellinandone i tesori anche gastronomici.
Proprio dall'Aquila, quindi, vogliamo partire per proporvi alcuni degli spunti d’autore che arricchiscono la nuova Guida Verde Abruzzo, più che mai attraversata da un fitto dialogo tra vuoti e pieni, tra ambienti intimi, spazi urbani e naturali. Lo facciamo ispirati dalla tenacia che sta riportando agli abruzzesi libertà e consuetudini che oggi desideriamo con più consapevolezza tutti noi.
di Maurizio Silvestri
Quando di buon mattino mi chiudo alle spalle il portone del blasonato palazzo in cui ho trascorso la notte, il sapore aspro e tagliente dell’aria aquilana mi sveglia senza pietà. Anche se è primavera viene da pensare che qui l’inverno non finisca mai, che assuma solo declinazioni diverse durante l’anno. Respiro a pieni polmoni con gli occhi rivolti al cielo azzurrissimo e mi infilo in via Paganica, che un grande cartello giallo indica interrotta. Un silenzio denso mi avvolge, mentre il sole accarezza appena i tetti sento i miei passi risuonare nella via deserta. Intorno alla fontana di marmo, davanti alla sagoma sventrata della monumentale chiesa di S. Maria in Paganica, un gruppetto di operai aspetta i compagni per iniziare il turno di lavoro. Parlano una lingua slava e sembrano di buon umore, sotto il braccio hanno la sportina con il pranzo.
Poco più avanti un uomo asciuga con grande cura il sedile del muletto su cui trascorrerà tutta la giornata. Scendo lungo via Roma, installazioni giganti di street art interrompono il freddo rosario dei ponteggi e delle impalcature. È nell’istante in cui mi fermo a guardare una bambina lillipuziana che scruta l’orizzonte dalla costa di un libro gigante che mi sorprende il rumore della prima gru che inizia il suo balletto sui tetti della città, seguito da un concerto di muletti, betoniere, mole, martelli pneumatici che si avviano a scandire il ritmo della giornata. ‘L’Aquila capitale europea del frastuono’ avevo letto su una scritta in vernice rosa.
Decido di perdermi nel labirinto del quarto di San Pietro, uno dei più danneggiati dal sisma e passo dal rumore assordante a cunicoli di silenzio. Indugio davanti a portoni semiaperti come per ascoltare un respiro, un segnale di vita. Ogni tanto, come un raggio di sole che squarcia la penombra nel bosco, ecco un casa restaurata. Splendida e vuota, con le persiane sbarrate. Il portale romanico della chiesa di S. Pietro a Coppito risplende bianco come non mai. Sul davanzale di una finestra, una fila di bottiglie di birra russa ben allineate.
Come per la ricostruzione dopo il devastante terremoto del 1703 arrivarono maestranze da Roma, Napoli e Milano, oggi sono serbi, russi, magrebini, oltre a molti italiani, quelli che stanno facendo rinascere la città e ne sono i primi abitanti. Prima degli aquilani, che passano sparuti e osservano in silenzio. Come Salvatore, che incontro dalle parti di S. Domenico davanti alla sua casa ancora puntellata. Fra un mese partirà il cantiere, ci vuole fiducia e pazienza mi dice. Risalgo in piazza Palazzo, sotto la statua di un sempre più imperturbabile Sallustio la panchina su cui incontrai il professor Colapietra è ancora al suo posto. Dopo il sisma non volle abbandonare la sua casa e per mesi fu l’unico abitante della città. Mi disse che in città ci sono tanti lavoratori certo, ma quello che manca è la popolazione. A distanza esatta di dieci anni dal terremoto le sue parole risultano più attuali cha mai e L’Aquila tornerà più bella di prima solo quando torneranno gli aquilani.
Anno edizione: 2020