Che una montagna possa essere bella, nel senso estetico del termine, è una cosa che ancora alcuni faticano a comprendere. Come fa una montagna, una vetta – così scarna, così solitaria, così pericolosa, così eccessiva –, a essere bella? Del resto fino a un paio di secoli fa l’idea stessa che la natura selvaggia potesse essere affascinante o che una montagna si potesse scalare era pura follia. La natura piacevole, degna di nota, era quella addomesticata, segnata dall’aratro, disegnata dall’uomo, feconda. Il resto era orrida natura selvaggia.
Ciò che invece chiamiamo montagna oggi è una collaborazione tra certe forme del mondo fisico – verticale, ghiacciato, impervio, solitario – e la nostra immaginazione che ha contribuito a renderle paesaggio. Ecco, per capire come a un certo punto della storia recente (relativamente recente) tutto sia cambiato e come una montagna possa essere diventata bella, anzi, non solo estaticamente bella, ma accogliente anche quando è estrema, bisogna conoscere da vicino Hervé Barmasse. Meglio se immerso nel suo ambiente primordiale, la montagna. Anzi, non una montagna qualunque, ma il Cervino, che domina con il suo profilo aguzzo la Valtournenche, in Valle d'Aosta.
Hervé Barmasse sul Cervino - foto H. Barmasse
UN PROBLEMA CON IL CERVINO
«Ho un problema con il Cervino. Lo scalo di continuo, penso sempre a come aprire una nuova via, in inverno, in estate. È la mia montagna, quella sotto cui sono cresciuto, che ho scalato la prima volta con mio padre, su cui sono salito innumerevoli volte con i clienti, come guida alpina. Ma è quella che mi dà sempre un’emozione, che mi dà ispirazione per mettermi in gioco, ancora» spiega Barmasse, classe 1977. Che per uno come lui, che ne ha salite di vette a tutte le latitudini, deve essere una necessità interiore, ti viene da pensare, come un viaggiatore che deve pensare alla prossima meta quando ancora non è arrivato a destinazione. Che poi, a nulla sapere di alpinismo, quando scorri la sua carriera – quelle note dove elencano le cime che ha scalato, come e in che tempo – aldilà dei nomi esotici di pizzi mai sentiti prima ti colpisce il fatto che spesso, che fosse in Pakistan, in Cina o in Patagonia, Barmasse ha scalato cime inviolate. Non le più alte, perché spesso cime meno elevate alpinisticamente sono addirittura più impegnative, ma quelle mai scalate da nessuno.
E quando anche non erano inviolate ha aperto nuove vie sulle montagne di casa, o anche su alcune vette “mitiche”, cimentandosi in imprese ardite su cime che hanno nomi altrettanto affascinanti di quelle più note: il Cerro Piergiorgio o il Cerro San Lorenzo, in Patagonia, il Beka Brakai Chhok, in Pakistan, oppure la Parete Sud dello Shisha Pangma, che supera di 27 metri gli ottomila - anche se quest'ultima è tecnicamente una scalata fallita, visto che Barmasse è arrivato a pochi metri dalla cima a causa delle condizioni proibitive. «Non cerco la statistica, ma qualcosa che mi soddisfi a livello di emozione, ricerco la sensazione, ho una visione artistica dell’alpinismo. Le ascensioni che faccio le devo fare per me, perché mi lasciano qualcosa, non perché vanno a riempire gli annali dell’alpinismo. Sono sfide con me stesso, qualcosa che mi aiuta, volta dopo volta a costruire questa visione artistica dell’alpinismo. Se lo facessi per gli sponsor, per ottenere il risultato clamoroso sarebbe diverso, sarebbe un’altra cosa. Certo, se mi dicessero sali, potrei salire, so farlo, sono allenato: ma a che cosa servirebbe? Sarebbe circo» spiega.
Hervé Barmasse sul Cervino - foto D. Levati/The North Face
L'ESPLORAZIONE COME STILE DI VITA
Perché Barmasse per sua stessa ammissione ha «un rapporto esplorativo con la montagna». E così, con quell’aria rassicurante, il sorriso aperto e i modi disponibili, Barmasse a sentirlo parlare delle sue avventure ha l’aria dell’esploratore, di quegli uomini che pensavamo esistessero solo negli altri tempi e che invece esistono anche oggi che di inesplorato è rimasto poco, almeno sulle carte geografiche. Per Barmasse l’esplorazione sembra essere uno stile di vita, più che una meta da raggiungere. «È il come fai le cose che diventa la novità dell’esplorazione. Scalo in stile alpino, che vuol dire in leggerezza, senza tuta d'alta quota, non ho ossigeno, portatori, non attrezzo la via con le corde fisse, non lascio rifiuti. Lo faccio perché è stato dimostrato che è possibile, e per portare un esempio di ecosostenibilità in montagna» racconta.
A uno che non è avvezzo alle cose di montagna, questo stile alpino pare una cosa un poco da folli, o da supereroi. Ma Barmasse a guardarlo da vicino ha tutto fuorché l’aspetto del supereroe: piuttosto ha la tranquillità di chi sembra essere in pace con sé stesso. «Non è una questione fisica, non solo almeno, anche se questa modalità di salire richiede molto più allenamento, sforzo fisico e mentale. Quello che cambia nello stile alpino è il rispetto della montagna: o la sporchi o la ami. Non si può rovinare quello che piace, anche se ci vogliono il doppio del tempo e dello sforzo rispetto a una via già preparata» racconta. E poi nel fare quel che fa Barmasse insiste sempre sulla responsabilità, verso la natura, ma anche verso sé stessi. «Quando fa brutto tempo, puoi essere l’alpinista migliore del mondo ma, se hai un minimo di testa e un minimo di responsabilità e di intelligenza, quando c’è pericolo di valanghe ti fermi e accetti quella che da una parte può essere vista come una sconfitta ma dall’altra come un’esperienza in più» aggiunge.
LA PASSIONE DI UNA COMUNITÀ
Già, l’esperienza. Alla fine sembra essere quella che conta per Barmasse, l’esperienza dell’incontro, della scoperta, dell’avventura. «Le vette non sono numeri, ma emozioni» ama ripetere. E l’emozione che gli dà la montagna è quello «stare soli con la natura. Ritrovare il tempo di stare solo con te, vivere quel momento, un momento in cui rifletti, ti viene l’ispirazione per nuove imprese». Imprese di ogni tipo. Per esempio di recente, oltre ad aver fallito per poche decine di metri una nuova via invernale su un ottomila, si è cimentato nell’impresa di scrivere della sua montagna del cuore, la montagna di casa, il Cervino. Così ha realizzato un libro – Cervino. La Montagna leggendaria, Rizzoli Libri, pag. 334, 29,90 €) – corposo, bello esteticamente, ricco di immagini e di storie. «Un libro che mi ha impegnato molto ma anche divertito. Perché ho dovuto leggere un sacco, documentarmi sulle storie di questa montagna e degli altri alpinisti, facendomi riscoprire il Cervino e le sue tante storie». Storie di alpinisti, di atleti, di valligiani che negli anni hanno fatto dello scalare la loro montagna un lavoro. Le storie di chi ha legato il suo nome alle risalite del Matterhorn, la Gran Becca, la vetta di 4.478 metri, come quella di Jean-Antoine Carrel e dell’abate Gorret, primi conquistatori del versante italiano nel 1865.
Storie come quelle che ognuna delle persone della valle di sicuro ha. Persone che è bello osservare mentre una sera d’estate – durante la Settimana del Cervino, un evento estivo di cultura montana creato dallo stesso Hervé – ascoltano la presentazione di Barmasse in un auditorium del paese quasi rapite, assai partecipi, molto felici di sentirsi raccontare la loro storia da un concittadino che li rende orgogliosi. Perché in Valtournenche della loro relazione con la montagna sono oggettivamente orgogliosi. Basta vedere le mura del Municipio che si affaccia sulla piazzetta delle guide: coperto da decine di targhe di granito e di bronzo con scolpiti i nomi e i volti delle guide alpine della zona, con cognomi – Carrel, Pellisier, Bich – che ritornano sempre, generazione dopo generazione. Che è un po’ quello che succede a casa Barmasse, con Hervé che segue le orme del padre, Marco, guida alpina, a sua volta figlio di Gino, guida alpina anche lui.
Valtournenche - foto Enrico Romanzi
UN AMBASCIATORE SENZA VOLERLO
Così è quasi normale – mentre si cammina su un sentiero facile, tra boschi di larici e praterie di alta quota, galleggiando tra le mucche, giusto sopra il limite della vegetazione e della tundra alpina – sentirsi raccontare le tappe della storia quasi d’amore tra Barmasse e il Cervino. Cervino che ha scalato per la prima volta da ragazzino, con suo padre, dopo un incidente che l’aveva allontanato da una promettente carriera di sciatore. «E la prima volta non è piaciuto neanche tanto», confessa. «Ma poi, dalla seconda, in inverno, non ho più smesso». E allora il Cervino è diventato la sua montagna. Quella cui ha legato il nome con imprese “esplorative” come dire, notevoli, ma anche quella su cui è salito centinaia di volte, spesso portandosi appresso clienti, altre amici, tante altre da solo. Quella che guarda di sfuggita, mentre camminando ti racconta con semplicità la sua relazione con questo ambiente d’alta quota, dispensando consigli semplici, di buon senso – «la montagna è quella che è, siamo noi a doverci rapportare con lei essendo consapevoli della nostra condizione e dei nostri limiti» – per affrontare ogni salita con attenzione e piacere. Mentre parla, salendo, si rende disponibile per una fotografia al volo con i camminatori che si incrociano sul sentiero, e ovviamente lo riconoscono.
E ti viene da pensare che questa
disponibilità estrema, oggettivamente sincera, va a braccetto con la capacità di comunicare, di raccontare la montagna e la sua terra. «
Sono diventato un ambasciatore senza volerlo, ma va bene così. Finché posso parlare e portare avanti quello in cui credo: la voglia di scoperta, il rispetto della montagna, un tentativo di cambiare almeno in parte il turismo, perché rimanere fermi non porta a nulla, bisogna sembra muoversi». E muoversi in questo caso significa
portare il turismo montano verso la sostenibilità. «E questa è un po’ la sfida di questi tempi, una nuova sfida».
E se c’è una sfida, uno come Hervé Barmasse c’è da star sicuri che non si tira certo indietro.