
Giro d'Italia, tappa 21 - Tao Geoghegan Hart a Milano - foto LaPresse
Insomma, la vittoria al cronofinish è andata a Tao Geoghegan Hart, di cui avevamo scoperto, facendo ricerche onomastiche, le antiche ed eroiche origini gaeliche del suo “casato”. Tao, cognome a parte, sarà anche ricordato per essere stato il primo corridore a vincere un Giro senza mai indossare in corsa la maglia rosa. Non erano molti a sapere qualcosa di lui, prima di questo Giro. Tra quei pochi ci sono i ragazzi di Bidon-Ciclismo allo stato liquido, Filip J Cauz e Leonardo Piccione, che sono stati per tre settimane i miei compagni di viaggio. In un mondo normale, loro due non sarebbero in macchina con me, ma lavorerebbero, e non da ieri, nella redazione di un giornale sportivo per fare un mestiere che sanno fare benissimo: quello di cercare instancabilmente notizie, di illuminare con la loro curiosità mai banale storie di sport e di strada, di utilizzare vecchi e nuovi strumenti di informazione per costruire una narrazione nuova del ciclismo che, non così sorprendentemente, assomiglia a quella vecchia. Una narrazione libera dal tutto, subito e in fretta, non mortificata dalla banalizzazione delle vicende umane, ancora prima che sportive, secondo il malsano comandamento che bisogna passivamente, e al riparo dall’intelligenza e dalla fantasia, adeguarsi a quello che, dicono, chiedono “il pubblico e il mercato”.


Giro d'Italia, tappa 21 - l'abbraccio di Tao Geoghegan Hart e Jay Hindley (secondo classificato, con la Maglia Rosa del giorno prima) - foto LaPresse
Andatevi a sentire sul sito giroditalia.it (ma anche su altre piattaforme come Spreaker, iTunes e Spotify), il loro podcast, GiroGlifici-Una corsa da decifrare, che ogni sera ha raccontato un Giro che non tutti sono stati così bravi a raccontare, un Giro più discosto dai facili riflettori e dalle notizie, tutte uguali, che si rimbalzano di testata in testata con una fastidiosa eco. Dall’intervista che Tao Geoghegan Hart ha rilasciato loro quando ancora non si sarebbe neppure immaginato di salire sul podio, ad esempio, ho saputo della passione del ragazzo londinese per il football e per l’Arsenal, in particolare.

Ieri pomeriggio, in attesa dell’arrivo degli ultimi ciclisti, ho camminato intorno alle vie del centro poco prima del traguardo. In via Pattari ho comprato, al solito peso d’oro, un cartoccio di caldarroste. Mi è tornato in mente che lo scorso anno avevo festeggiato la vittoria di Richard Carapaz, all’Arena di Verona, pescando ciliegie da un sacchetto. Molto più che un semplice cambio di stagione. Da poche ore era stato divulgato l’ultimo DCPM che sanciva, a partire da oggi, un nuovo, seppur parziale, lockdown: chiusura serale degli esercizi commerciali, nuove restrizioni agli spostamenti e ai trasporti, ulteriori esortazioni a limitare spostamenti e contatti. Mi è parso che a Milano, più che altrove, più che nelle città e nelle regioni che ho attraversato in queste settimane, si percepisse la straniante condizione di una festa negata. Nell’ultimo tratto di percorso, le transenne innalzate erano oscurate da teli che proibivano la visuale del passaggio dei corridori. Un paradosso. Si sentivano i rumori della corsa, ma si era impediti di vederla, se non su grandi schermi o in quelli minuscoli dell’iPhone.

Ho pensato che la stessa conclusione sportiva della corsa, questo testa-a-testa aperto fino all’ultima curva, ha in fondo rispecchiato la dimensione “esistenziale” di questo Giro appena trascorso: quella dell’incertezza. L’incertezza di non sapere se la corsa si sarebbe potuta svolgere tutta fino al traguardo di Milano, insidiata dall’evoluzione della pandemia di queste ultime settimane; l’incertezza di non sapere se il tentativo di difendere il diritto, sportivo soprattutto, ma anche economico, di garantire la regolarità della gara fosse in contrasto con il diritto di salvaguardare sicurezza e salute di tutti, dagli attori protagonisti della corsa, a tutto il contorno dell’evento, organizzazione, logistica, informazione e pubblico compreso. E, più personalmente, anche l’incertezza se essere saliti sulla giostra colorata del Giro sia stata la cosa giusta da fare, scegliendo di viaggiare per tre settimane a una diversa velocità e in una dimensione solo tangenziale allo svolgersi delle vicende di tutti i giorni.
Approdare a Milano, incappata di un grigio pre-invernale, senza più lo scirocco stordente di Monreale, i feroci contrasti di cielo e terra tra la lava dell’Etna, l’ultima estate del mare di Vieste, il caldo infuocarsi dei boschi d’autunno sugli Appennini e sulle Alpi, è stato come zavorrare di colpo il volo di una mongolfiera, scendere a terra e trovarsi in mezzo a un malcerto ballo in maschera. Il Giro d’Italia è arrivato a destinazione. Ha portato a termine il suo lavoro e questo è sempre un buon segno, un esempio di come vanno affrontate fino in fondo le cose.

Giro d'Italia, tappa 21 - foto LaPresse

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