Un viaggio nell'Italia del boom con le immagini dell'Archivio fotografico del Touring Club Italiano
“Il turismo ripartirà come negli anni Cinquanta”. Ma come era il turismo negli anni Cinquanta?
7 maggio 2020
di Tino Mantarro
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"Il turismo ripartirà come negli anni Cinquanta" è una frase che in queste settimane si sente ripetere spesso dagli addetti ai lavori. Dunque addio viaggi all’estero e viva il turismo di prossimità, la riscoperta dell’Italia a corto raggio, quella che prima si riservava alla gita fuori porta della domenica di Pasquetta e al Ferragosto. Torneremo a essere villeggianti, con il trionfo delle seconde case, meglio se in montagna che c’è meno gente, meglio se in una valle non tanto nota che ce n’è ancora meno. Viva la passeggiata in montagna ma con il panino nello zaino, la bicicletta lungo fiumi e canali (benedette ciclabili, finalmente è la vostra ora), la spiaggia vicino casa, che non sarà la migliore ma non è poi tanto male, suvvia: si evita la coda in autostrada e la folla allo stabilimento balneare.
Ma come era davvero il turismo negli anni Cinquanta? Era per molti, ma non per tutti. Anzi, decisamente per pochi. All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale l’articolo 36 dalla nostra modernissima Costituzione sancisce il diritto al riposo retribuito dei lavoratori, «il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». Ovvero si certifica la nascite delle ferie, anche se diversi impiegati urbani le avevano già. Eppure la situazione economica del Paese è ancora quella che è: negli anni Cinquanta solo un dieci per cento della popolazione va in vacanza, il boom economico deve ancora venire. Per chi le faceva erano comunque vacanze lunghe, venti giorni concentrati ad agosto, con la chiusura totale di uffici e fabbriche, le città che serravano come fosse un ordine ministeriale e i paesi che si riempivano di chi in qualche modo tornava a casa. I ricchi, le famiglie borghesi avevano case in montagna e al lago, andavano in riviera e se la godevano, gli altri guardavano, anelavano, facevano economia per l’anno dopo.
E poi c’erano gli stranieri, loro sì, i veri vacanzieri. C’è stato un momento in Italia in cui ogni straniero in viaggio era considerato invariabilmente un americano. Conveniva. Solo gli americani avevano davvero le mani bucate, lasciavano mance che valevano un mese di stipendio e – diciamolo – si potevano far su con poco. Gli stranieri portavano valuta, valuta pesante. Servivano a far quadrare i conti, a rimpolpare le casse, a salvare una stagione. Gli stranieri amavano quello che avevano sempre amato i viaggiatori del Grand Tour: com’è triste e come è bella Venezia, come è dolce e incredibile Roma, come è attraente Firenze con tutta quella cultura, che fascino Pompei, certo è dura arrivarci. E poi c’erano le perle del jet set, perché finita l’era delle teste coronate in viaggio di riposo sui laghi, le vacanze da rotocalco erano quelle degli attori, delle star.
E allora tutti a vedere la bella Taormina, che sembra quella raccontata da Goethe, ma certo ha grandi alberghi e anche un casinò. Altrimenti che jet set sarebbe? E poi Capri, oh Capri, la quintessenza dell’idea d’Italia, la Mecca del turismo elitario: stravagante, eccentrica, trasgressiva, ma anche colta con tutti quegli scrittori che la sceglievano come ritiro estivo. Non ancora la Capri dove Jacqueline Kennedy camminerà a piedi nudi lanciando una moda, ma certo una Capri da Dolce Vita.
Già, la Dolce Vita. Quanti stranieri avrà portato in Italia il film di Federico Fellini da quel 5 febbraio 1960 quando a Roma, al cinema Capitol andò in scena la prima? Quanti stranieri avranno sognato un giro in lambretta, un incontro con il bel Marcello e un tutto nella fontana di Trevi? Ah, se il turismo ripartisse come negli anni Cinquanta. Che anni fantastici che avremmo di fronte.