Aspettava la luce giusta, Gabriele Basilico. Quella perfetta, meglio se del mattino, capace di illuminare radente le architettura urbane che amava fotografare per raccontare il mondo di oggi e l'Italia. Andava in giro con cavalletto sulle spalle e riprendeva su lastre, in grande formato. Stava sotto il panno nero, come un fotografo di una volta, quanto la fotografia era all'inizio. Ma sotto il panno nero era chino a fotografare la modernità, la modernità delle città che si dipanavano sotto i suoi occhi. Architetto di formazione, raccontano che fosse meticoloso e facesse infiniti sopralluoghi per capire quale fosse l'inquadratura migliore, il momento migliore, la situazione migliore per fermare il paesaggio urbano.
"La foto d'eccellenza è contemplativa, c'è bisogno di tempi. L'azione fondamentale è lo sguardo. La foto è memoria tecnica fissata di questo sguardo" diceva del suo lavoro. Come un Canaletto dell'età contemporanea immortalava grandi vedute di grandi spazi, spesso ai limiti delle città, dove il campo entra nel capannone. Dove non c'è l'arte da libro di scuola che tutti vanno a vedere nei centri urbani, ma c'è la poesia della vita, quella che passa, quella che è passata, che non tutti, non sempre, riescono a capire. Non erano le cartoline folcloristiche che raccontano quanto è bello il mondo e quanto è bella l'Italia, quelle che scattava Basilico. Erano cartoline del mondo d'oggi. Quelle che in futuro gli studiosi guarderanno con attenzione certosina per capire com'era quel posto in quel determinato anno. Erano immagini di dismissioni, come quelle delle fabbriche milanese che cominciò a fotografare una domenica di Pasqua del 1978, facendosi ispirare da Bernd e Hilla Becher, che in Germania andavano in giro a bloccare su carta i manufatti di archeologia industriale. Spazi spesso privi di vita, svuotati di persone e riempiti di linee, metafisici, direbbe qualcuno. Spazi martoriati, come quelli di Beirut ripresa dopo il decennio di guerra degli anni Ottanta. Spazi verticali, come quelli della sua Mosca dei palazzi del potere. "Che fotografo sono? Sono un gran misuratore di spazi" raccontava. Diceva che la fotografia si fa con i piedi. E per questo quando arriva nella zona che aveva deciso di ritrarre camminava avanti e indietro per capire qualche fosse il punto di vista giusto, quello che rappresentasse nel modo migliore la semplicità frontale e limpida di un paesaggio.
Era sempre la stessa fotografia, "con le stesse inquadrature, gli stessi punti di vista, le stesse variazioni di luce", lo scriveva anche lui. Eppure era una bella fotografia, capace di raccontare. Una fotografia che stavi a guardare con attenzione, andando con l'occhio da destra a sinistra, da sinistra a destra, come se stessi cercando di riconosce qualcuno, o qualcosa. Mentre invece stavi solo ammirando una fotografia che ti permetteva di conoscere il mondo da una prospettiva non scontata. Gabriele Basilico è morto ieri a Milano, dopo una lunga malattia, non aveva neanche 70 anni. Era nato nel 1944. Aspettava ancora la luce giusta. Quella che adesso si è spenta.