C’è stato un tempo in cui la South Carolina era lo stato più ricco del nuovo mondo. E Charleston, la capitale, ne era la città più facoltosa. Era il tempo della schiavitù, decenni lunghi e spietati in cui questa città fondata nel 1670 in onore di Carlo d’Inghilterra è stata il porto d’approdo per la maggioranza degli schiavi africani destinati al Nord America.

Dalle banchine del porto di Charleston, sulle coste dell'Atlantico, sono passati 152mila dei circa 390mila schiavi arrivati direttamente in America delle coste dell’Africa occidentale. Più che in qualsiasi altro porto del Paese. Un numero così preciso, 152mila su 390mila, da far impressione nella sua freddezza, ma del resto anche se si trattava di esseri umani era commercio. E i commercianti, si sa, con i loro affari sono sempre precisi.

Le case ottocentesche del centro storico di Charleston, South Carolina - foto Shutterstock
Le case ottocentesche del centro storico di Charleston, South Carolina - foto Shutterstock

La prima nave con il suo carico di vite rapite ancorò a Charleston due anni dopo la fondazione della città, fermandosi in quell’immenso porto naturale che ancora ospita parte della flotta della Marina statunitense. Le navi negriere partivano delle località della costa occidentale africana in mano ai signori della tratta, i mercanti portoghesi: salpavano da Bissau a Ouidiah, dall’Angola e dal Ghana, attraversavano l’Atlantico in 63 giorni di navigazione, e si fermavano qui, sulle sponde del fiume Cooper. Al Gadsden’s Wharf c’erano i magazzini in mattoni, dove venivano stivati gli schiavi – quelli fortunati, sopravvissuti al viaggio, perché circa il 15% moriva prima di toccare terra – in attesa, per settimane, alle volte mesi, di saper il loro destino. Destino che poi era sempre lo stesso: venir venduti al mercato, nel quartiere francese, e finire in una piantagione.

All’inizio gli schiavi africani venivano sfruttati per coltivare riso, la prima ricchezza di queste terre umide, più tardi il cotone. Schiavi che allora non rappresentavano solo forza lavoro bruta, muscoli da sfruttare come muli, ma persone educate, capaci di costruire e far rendere una risaia come facevano da secoli sulle coste africane, pratica invece del tutto ignota ai signori inglesi che li sfruttavano. Una storia poco nota, come in realtà tante altre che riguardano quell’aspetto tutt'altro che secondario della storia americana. Perché il vero ruolo degli schiavi africani e della loro cultura nella crescita degli Stati Uniti è ancora sottostimato e poco raccontato

Panorama di Charleston dall'alto – foto Shutterstock
Panorama di Charleston dall'alto foto Shutterstock

L’International African American Museum

Con le sue case basse, le balconate di ferro battuto, le vie strette, le chiese di mattoni, l’allure coloniale che circonda il centro storico edificato sulla penisola, Charleston del traffico di essere umani è stato l’epicentro. La sua storia è finalmente raccontata all’International African American Museum, istituzione che dopo vent’anni di difficile gestazione ha aperto nel gennaio 2023. Un museo che non a caso è stato edificato sul Gadsden’s Wharf, esattamente dove attraccavano le navi negriere e dove si trovavano i magazzini degli schiavi. «Questo suolo qui è sacro – spiega la direttrice Tonya Matthews, camminando nel parco in riva al mare al cui interno si trova il museo –, e dunque si è deciso che l'edificio non toccasse terra. Per questo gli architetti lo hanno costruito su 16 piloni, lasciando che il suolo sia libero per ospitare questo parco nella memoria accessibile a tutti: perché alle volte anche l’architettura serve per raccontare una storia». Affacciato sul mare, aperto nei suoi spazi interni e assai luminoso, l’International African American Museum (Iaam) non racconta solo due secoli di schiavismo, ma anche il prima e il dopo. 

L’International African American Museum a Charleston
L’International African American Museum a Charleston

Perché c’è un prima (gli avvenimenti che portarono alla tratta dagli schiavi) e soprattutto un dopo, visto che tutto non è affatto finito nel 1808, con l’Atto che ha proibito in America la tratta degli schiavi. Il razzismo e la segregazione sono durate ben oltre, non finendo neanche nel 1867 con la conclusione della guerra civile, ma proseguendo per tutto il XX secolo, se è vero come è vero che ancora negli anni Settanta in centro a Charleston c’era una scuola per neri e una per bianchi.

Scuola per bambini afroamericani nati in schiavitù, Charleston, 1866. Prima della Guerra Civile, era illegale insegnare agli schiavi a leggere. Foto Shutterstock
Scuola per bambini afroamericani nati in schiavitù, Charleston, 1866. Prima della Guerra Civile, era illegale insegnare agli schiavi a leggere. Foto Shutterstock

Così l’Iaam sembra essere qualcosa di più che un museo della schiavitù, pare piuttosto un monumento alla sofferenza e alla sopravvivenza, che posiziona Charleston all’interno di un orizzonte storico e geografico più ampio, quello del ricordo, della consapevolezza e del riconoscimento del ruolo dell’Africa e della cultura africana nella creazione della cultura americana. «Quello che vogliamo avvenga con questo museo è sviluppare il più possibile un dibattito su queste tematiche, perché nonostante il discorso pubblico di questi ultimi decenni si sia ampliato, nonostante queste mura siano già un grande risultato, la consapevolezza non è mai abbastanza» prosegue la direttrice Matthews.

Dibattito che nelle sale del museo si concretizza in decine di rivoli: stanze e angoli dove perdersi ad approfondire le connessioni culturali – dalla musica alla cucina – da una parte all’altra dell’Atlantico; dove fermarsi a riflettere sull’oro della Carolina, quel riso le cui piantagioni hanno costruito la prima forma di ricchezza per queste terre, oltre che l’intelaiatura per il sistema delle “Plantation” divenute ubique in tutto il sud degli Stati Uniti quando a fine Settecento l’oro di queste terre divenne il cotone. E poi, a corollario del museo, c’è tutta una parte di archivio aperto, grazie a cui i discendenti afroamericani (Michelle Obama l’ha fatto) possono ricostruire le proprie origini, risalendo fino al 1870, quando per la prima volta anche le persone di colore sono state registrate con nome e cognome.

Vista dall'alto del centro di Charleston con il porto sullo sfondo – foto Shutterstock
Vista dall'alto del centro di Charleston con il porto sullo sfondo – foto Shutterstock

Una città coloniale

Per capire quel che ha significato per questa fascia atlantica lo schiavismo non basta però fermarsi al museo, per quanto ricco e bello. Bisogna uscire, visitare la penisola dove sorge Charleston con le sue case coloniali in legno che ricordano quelle di Barbados, perché a quell’architettura coloniale si ispiravano le famiglie di possidenti terrieri del South Carolina.

Una città europea, per certi aspetti, con vie strette dove circolano carrozze a uso turistico, ma dove nel giro di qualche isolato con un tour a piedi di un paio di ore si viene a conoscenza della storia “nera” di una città che fino agli anni Settanta del Novecento era per il 70% abitata da persone di colore. E invece oggi, che è diventata una meta alla moda, è vittima di un processo di gentrificazione galoppante, che trasforma le belle magioni di legno in altrettanto affascinanti boutique hotel, e rende i distretti centrali un magnifico scenario per gli abbondanti turisti, ma un poco prive di vita, come sempre più spesso succede. Così il mercato centrale, una costruzione bassa di mattoni, è diventato uno shopping center di souvenir, anche se alcune botteghe sono ancor gestite dagli eredi di quegli artigiani di colore che ci lavoravano decenni fa.

Ma chi vuol capire la storia di un luogo e andare oltre alla fugace impressione turistica di una città sicuramente piacevole, ha comunque tante possibilità. Perché la presenza afroamericana ha segnato tutta la storia della South Carolina, ed è una chiave per leggere e comprendere il paesaggio e la sua evoluzione visitando i sobborghi della città. 

Lo si può fare andando alla ricerca di quel che resta delle comunità Gullah, le comunità creole che si erano insediate lungo tutta la costa atlantica meridionale, dal North Carolina alla Florida, in una zona geografica di relativa separazione dai bianchi e anche degli altri afroamericani segregati nelle piantagioni. Perché i Gullah altro non erano che schiavi scappati dal sistema delle piantagioni, forti e fortunati abbastanza da sopravvivere alle paludi infestate da coccodrilli e alle vendette dei negrieri, capaci di istallarsi nella fascia del Low Country, tra le pianure costiere e le tante isole che si trovano a protezione degli estuari, lungo la costa del South Carolina, della Georgia e della Florida. E sopravvivendo tra paludi, isole, fiumi, cacciando, pescando e coltivando la terra che arrivavano a possedere, anche se era formalmente proibito.

Una donna Gullah mentre intreccia cestini di vimini
Una donna Gullah mentre intreccia cestini di vimini

Molti hanno lasciato queste zone rurali solo nel Novecento, ingrossando il numero delle persone che andavano a vivere ai margini delle città. Altri ci vivono ancora, anche se la loro cultura – parlavano un inglese tutto loro, con costruzioni verbali ricavate dalle quaranta lingue africane di provenienza –  si è via via annacquata, e anzi negli ultimi anni le zone storicamente abitate dalle comunità Gullah sono contese dagli speculatori, che vorrebbero costruire residence e ville su quelle strisce di terra fronte mare. Terra di cui i discendenti della comunità Gullah faticano a dimostrare il possesso legale per la mancanza di documenti che lo attestino. Quelle superstiti sono agglomerati di case di legno con vista oceano, case strette e ravvicinate perché la vita in comunità è stata sempre fondamentale per darsi una base, case povere perché negli anni queste comunità non hanno migliorato la loro condizione economica. 

Scoprire le Plantation

Case ben diverse da quelle che si trovano visitando le tante Plantation che si trovano lungo tutto la costa attorno a Charleston e all’interno, lungo i fiumi tagliano in maniera longitudinale lo stato. Come quelle che si scoprono addentrandosi nell’Old Santee Canal Park. Basta uscire dalla città e se ne trovano diverse, spesso visitabili, grazie a cui farsi un’idea di come era la vita in quei tempi. Posti come Cypress Garden, più famosa delle altre perché qui hanno girato film di qualche anno fa, come Cold Mountain e The Notebook con Mel Gibson. Un posto dalla natura sovrabbondante – querce enormi da cui pendono liane spettrali, paludi immense, acqua di un color scuro, nero, per via del tannino, alligatori in ogni dove, e poi aquile pescatrici, aironi e uccelli di ogni tipo – che ti viene da pensare che il carattere delle persone di queste terre, rude e forte, sia segnato dal paesaggio in cui sono cresciute.

Middleton Place, vicino Charleston, SC –  foto Shutterstock
Le enormi querce che segnano l'ingresso di una delle Plantation – foto Shutterstock

E infatti qui, al Sud, appena esci dalle città si sentono diverse, e forse lo sono anche, per accento e modo di vivere. E allora si esce dalla città, addentrandosi nel Berkeley County che è un piccolo anticipo di America profonda – in tutto e per tutto un altro mondo rispetto alle città  – , per visitare posti come Cypress garden, ma anche la Boone Hall, più vicina alla città, o Middleton Place con gli oltre 110 acri di giardini, campi, è come vedere la necessaria cornice di un quadro di cui ha approfondito i personaggi all’International African American Museum.

Middleton Place, vicino Charleston, South Carolina –  foto Shutterstock
Middleton Place, vicino Charleston, South Carolina – foto Shutterstock

Solo che a Cypress Garden ti fai anche un’idea di come era il paesaggio prima che i coloni, grazie al lavoro degli schiavi, bonificassero tutto, per piantare prima riso e poi cotone. In un posto come questo un tempo, fino al 1866, c’erano almeno 500 schiavi, che poi sono stati liberati per legge e se ne sono andati, vivendo ancora una vita dura ma da uomini liberi. Una storia che ti raccontano mentre attraversi la palude in barca, con una guida che racconta con una voce bassa, da cantante di blues. Storie che intercetti anche visitando l’abbazia di Mepkin, un monastero trappista fondato nel 1948 nel luogo in cui per secoli c’è stata una piantagione dove vivevano recluse trecento persone. Uomini e donne che con il loro lavoro hanno disegnato quel paesaggio che ora sembra idillico, ma di cui è bene conoscere la storia.

Le case di mattoni che ospitavano gli schiavi all'interno delle Plantation vicino a Charleston – foto Shutterstock
Le case di mattoni che ospitavano gli schiavi all'interno delle Plantation vicino a Charleston – foto Shutterstock

INFORMAZIONI

  • Non ci sono voli diretti tra l'Italia e Charleston, in South Carolina. Il modo più semplice è volare facendo scalo su Atlanta o New York, con i tanti voli diretti da Milano Malpensa, Roma Fiumicino e Venezia.
  • Il sito web dell'ufficio del turismo locale Explore Charleston offre tutte le informazioni pratiche per organizzare un soggiorno.
  • Charleston può essere una buona tappa di partenza per esplorare il Sud degli Stati Uniti. Suggerimenti e idee sul sito di Travel South.