Probabilmente l’unico posto al mondo dove si possono comprare cd di musica indiana, Rolex finti e borse di Prada false, qualche chilo di lenticchie prodotte in Etiopia, qualsiasi tipo di spezia vi passi per la testa, un biglietto di sola andata per Calcutta. il tutto nello stesso microscopico stanzino di due metri per tre gestito da un signore pakistano vestito all’inglese che trasuda curry. La lingua franca di questo luogo è un inglese con forte accento indiano, ma possono andare bene anche il pashtun, lo swhahili, l’urdu e qualche dialetto nigeriano. Conoscere il cantonese, la vera lingua dell’ex colonia, non è strettamente necessario. Perché anche se sulla carta sarebbe territorio di Hong Kong, la Chungking Mansions in realtà è qualcosa di altro. Una zona franca, la globalizzazione prima della globalizzazione. Un luogo da vedere, se si ama il mondo.
Architettonicamente non è nulla di che, anzi: un gruppo di cinque palazzi alti 17 piani disegnati da un architetto di cui nessuno conosce il nome. E forse è meglio così, perché il luogo è incredibilmente inospitale, almeno per i nostri canoni abitativi. Talmente buio ed affollato che volendo sarebbe impossibile costruire un altro palazzo altrettanto tanto buio ed affollato.
Costruito nel 1961 per ospitare gli immigrati cinesi che scappavano dal maoismo, è da sempre un concentrato di umanità. Circa 4mila abitanti stimati, 371 spazi adibiti a negozi, in media non più grandi di 20 metri quadrati, oggi è la residenza ufficiale di tutte le minoranze – quelle povere – che vivono a Hong Kong. Minoranze che convivono senza problemi in uno stato di sospensione
Ciò non toglie che la Mansion sia il primo porto d’approdo per i turisti squattrinati che arrivano in città, porto sicuro per chi non vuole, o non può svenarsi in un città comunque cara. Nelle sue torri si trovano un’ottantina di guesthouse per un totale di oltre mille posti letto. Strutture con quattro, cinque camere l’una; stanze grandi quanto loculi, dove si entra e si è già sul letto, posti dove i bagni sono praticamente verticali, ovvero con la doccia sopra il lavandino che sta sopra il water. Alcune sono anche accoglienti, con cinesi sorridenti che offrono qualunque servizio. Altre sono sordide e scure, ed odorano eternamente di curry e riso fritto.
Eppure è un posto tranquillo e ben vigilato. Alla sera all’ingresso chiedono i documenti. Per controllare meglio chi entra e chi esce fanno funzionare solo due dei vecchi ascensori del complesso. Sono organizzati a coppie e sono lenti come null’altro è lento in questa città. Uno si ferma ai piani pari, l’altro ai piani dispari. Sono cubicoli ricchi di vita, che ogni volta riscrivono le leggi che governano la distribuzione dei corpi negli spazi.
Quel che costa poco è farsi sistemare un telefonino. Anzi, sembra che questo sia il centro di gravità di tutti i telefoni del mondo. Una statistica forse non vera racconta che da qui negli anni Duemila passasse il 20% di tutti i telefoni dell’Africa. Venduti e comprati da traffichini nigeriani e kenioti che scendevano dall’aereo, arrivavano qui a far affari e tempo 48 ore tornavano a casa. Senza curarsi della città fuori, tutti attenti a non perdersi nella Chungking Mansions. Un luogo che è difficile descrivere con una sola parola: dedalo, magazzino, giungla, labirinto, bassofondo? Forse solo uno sgabuzzino in disordine.