C’è chi l’ha definita un mostro e chi l’ha premiata come miglior edificio dell’anno al mondo. Anche i milanesi si sono spaccati in due fronti, favorevoli e contrari. A quasi due anni dall’inaugurazione e con la piena attività della struttura, siamo andati a vedere perché la nuova sede dell'università Bocconi (grazie a un itinerario organizzato dall’Ordine degli architetti di Milano: via Solferino 19, tel. 02.62534272), che va ad ampliare il campus, ha scatenato un dibattito sull’architettura contemporanea come non se ne vedevano da anni.
Già trovare l’ingresso sembra una sfida. Suggeriamo di procedere per tappe accedendo al campus dall’ingresso di via Sarfatti. Qui si trova il primo edificio dell’università privata milanese progettato da Giuseppe Pagano tra il 1937 e il 1941. E già se ne intuisce la modernità. Inforcando via Gobbi si possono osservare tutti i successivi ampliamenti della Bocconi: quelli di Giovanni Muzio tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, eredi del razionalismo di Pagano; quelli di Vittore Ceretti che, tra il 1983 e il 1985 realizza la Scuola di Direzione Aziendale in uno stile più “tecnologico”; fino alla struttura a pianta ovale pensata da Ignazio e Jacopo Gardella nel 2001. Proprio passando alle spalle di questo massiccio edificio si arriva all’ultima, contestata parte dell’ateneo.
Il progetto, vincitore di un concorso, è di due architetto donne dublinesi con il loro studio Grafton. Anche il profano si rende conto di alcuni elementi chiave della struttura: il complesso è composto di blocchi di quattro o cinque piani sospesi a diversi metri dalla strada in modo tale che il piano terra sia attraversabile. Una piazza, anzi, un cortile. Primo elemento molto milanese. I blocchi sono vetrati e si affacciano all’interno. Come le vecchie case della città, sobrie all’esterno e aperte in cortile. Il piano terra, poi, è scavato. Qui ci sono il foyer, che ospita molte delle opere della vasta e raffinata collezione di arte contemporanea della Bocconi, e l’aula magna, tutto illuminato da lucernai simili a camini che catturano dalla strada la luce.
Riemergere in strada, tra viale Bligny e via Rontgen, a questo punto, non dovrebbe mettere più ansia. Qualcuno noterà come il materiale di rivestimento utilizzato, il ceppo di Gré, sia un’altra tipicità milanese, estratto fin dall’antichità dalle cave sul lago d’Iseo, e pietra caratteristica della città. Secondo elemento meneghino. Qualcun altro, un po’ più esperto in architettura, noterà un altro riferimento che caratterizza il capoluogo: la facciata a gettante è un omaggio a Luigi Moretti e al suo palazzo in corso Italia, una vela bianca a sua volta amata e odiata, realizzata negli anni Cinquanta. Se ancora ci si dovesse domandare perché sono state scelte due dublinesi per un progetto così importante, la risposta viene spontanea: conoscono Milano molto meglio di tanti milanesi, e l’hanno dimostrato con un edificio che, a buon titolo, è stato definito l’ultimo monumento della città. Con buona pace di chi pensa che il moderno non abbia mai un’anima.