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Siamo onesti: l’alta velocità è comoda. Arrivare in poche ore da Milano a Roma, da Madrid a Barcellona, da Parigi a Londra è una conquista di questi anni che rende più rapido, comodo, in definitiva semplice l’andare da un posto all’altro. Detto questo, il fascino del viaggiare non sta nell’andare nel minor tempo possibile da A a B: sta in tutto quello che ci sta in mezzo.
Da oltre un secolo uno dei modi migliori per attraversare quello spazio tra A e B è il treno. Ma un treno, rispetto all’alta velocità, è come se fosse un mezzo diverso. Certo, chi lo deve prendere ogni santo giorno finisce per odiarlo, il treno, e spesso c’è da capirlo. Ma se lo si guarda da un punto di vista non utilitaristico, diciamo umanistico, il treno diventa e qualcosa di più di un semplice mezzo di locomozione: diventa elemento di incontro e condivisione. Permette il rimescolamento delle genti, stimola il senso di compassione, esercita all’arte della pazienza e favorisce l’empatia e il contatto umano. Tutti insieme ci si fa portare: poi sta ad ognuno scegliere se stare a guardare fuori dal finestrino, o dentro al vagone.
Tutti questi pensieri e queste riflessioni che sembrano un elogio un poco nostalgico del buon vecchio treno vengono in mente leggendo Binario Est, il libro edito da Bottega Errante (pag. 176, 15 €) che Marco Carlone ha dedicato alle ferrovie dell’Europa dell’Est. Dall’Albania all’oblast di Odessa, dalla Bosnia Erzegovina alla Repubblica Moldava, dalla Romania alla Bulgaria quelle ferrovie sono – assieme a certe linee minori italiane – le più ignorate, vecchie e scalcagnate dell’interno Continente.
Non sono linee percorse dai treni eleganti e lenti di inizio Novecento su cui Agata Christie e Graham Greene ambientavano le loro storia, ma piuttosto linee in cui bisogna armarsi di santa pazienza perché la velocità è ridotta, la comodità relativa, la puntualità migliorabile, ma in compenso l’umanità a bordo è varia, e quel che si vede dal finestrino spesso è un poco liso, tendente alla ruggine, molto vissuto, mai scontato. Treni su cui non è facile annoiarsi, anche se annoiarsi è sempre una questione di punti di vista: c’è chi come Carlone ama le chiacchiere da treno, i paesaggi un poco mossi e ha una debolezza per i bar delle stazioni, quando ci sono.
Potrebbe sembra il racconto di un universo triste e in dismissione, e invece leggendo le pagine di Carlone – che con i treni, intesi proprio come locomotive, vagoni, materiale rotabile è decisamente fissato –, viene in mente il titolo di un non memorabile romanzo di Sandro Veronesi: Per dove parte questo treno allegro. Perché alle fine i suoi viaggi alla ricerca dell’ultima locomotiva a vapore ancora in attività in Europa (piccolo spoiler, la trova, in Bosnia), o sulla linea ipersecondaria che attraversa i primi contrafforti dei Carpazi al limitare dell’immensa pianura pannonica, o ancora tra quel che resta del microscopico sistema ferroviario albanese, sono a loro modo leggeri e piacevoli. Ecco, forse non proprio allegri, ma di certo assai reali. Come sono assai reali, genuini i posti spesso sconosciuti che attraversa. Posti che come la stazione di Chisnau sembrano essere lo specchio del paese che contribuiscono a movimentare: «modesta ma curata, rugginosa ma dai bei modi, spartana ma sincera».
Posti toccati da vecchie elettromotrici finite in Est Europa dopo esser state dismesse decenni fa dalle ricche ferrovie occidentali, treni che fermano in tutte le stazioni, che espletano – pur con qualche innegabile acciacco – il compito per cui erano state pensate a fine Ottocento: trasportare le persone. E con loro un mare di storie, sguardi: parole che Marco Carlone, mosso dall’amorevole pazienza dell’estensore di un orario ferroviario a cui ogni volta viene sottratto un pezzo, colleziona.
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