“La battaglia è la mia vita”, l’ha sempre pensata così Nelson Mandela. La pensava così anche il 15 maggio del 2004, quando a Zurigo l’assemblea della Fifa decise di assegnare i Mondiali 2010 al Sudafrica. Raccontano che fu una sorta di compensazione: quattro anni prima - sempre a Zurigo - aveva vinto la Germania solo perché il delegato neozelandese si rimangiò la parola data all’ultimo. Compensazione o no, poco importa. Mandela - che era andato a Zurigo a perorare la causa del suo Paese e di tutto un continente - aveva vinto un’altra battaglia.
Da quel giorno sono passati sei anni. Ora, alle 16 di venerdì, ventiquattro giovanotti in pantoloni corti inizieranno a correre sopra un prato liscio e ben rasato. Scopo del gioco: inseguire un sogno. E solo allora si vedrà davvero se, e come, il Sudafrica ha superato quest’ennesima prova. Sulla carta il Paese è pronto. Gli stadi sono terminati: sono stati investiti 900 milioni di euro per costruire dieci nuovi impianti. Un altro miliardo e duecentomila è stato speso per il sistema dei trasporti e quasi due per gli aeroporti. Intanto si fa un gran discutere di sicurezza: le città sudafricane sono note per essere abbastanza violente, oltre che belle, andrà tutto bene? Il governo dice sì, ovvio, e schiera 44mila agenti. Anche se domenica, durante l'amichevole Nigeria - Corea del Nord giocata nel vecchio stadio di Makhulong di Johannesburg, giusto all'interno della bidonville di Tempisa, non tutto è andato bene. Nella ressa per entrare ci sono stati 20 feriti. Si parla tanto anche di turisti: ci sono 200mila posti letto pronti ad accoglierli, arriveranno o non arriveranno il milione promessi? Per ora le prenotazioni sono ferme a quota 450mila, di cui solo 10mila dal continente africano. E di palloni: quello scelto dallo sponsor si chiama Jabulani, in lingua Zulu vorrebbe dire festeggiare. Ma i portieri non sono così convinti di festeggiare: i più gentili hanno detto che “è vergognoso”, i meno che “è come quelli che si comprano al mercato”.
Vada come vada, venerdì Sudafrica - Messico si giocherà lo stesso. In tribuna anche Nelson Mandela, padre della nazione arcobaleno. Per quei novanta minuti i Bafana Bafana proveranno a far dimenticare ai sudafricani la catasta di problemi del Paese. Finita la festa, tra un mese e 64 partite, torneranno a pensare alle difficoltà: il Sudafrica non è il Paese sognato da Mandela. Se l’apartheid è finito, l’ugugalianza sociale ed economica è ancora un miraggio. Per un po’ i Mondiali maschereranno i problemi, poi il Sudafrica farà i conti con sé stesso e le sue splendide speranze.
Fin qui la storia, poi c’è il calcio. Dire chi vincerà non è il caso. Ognuno ha il suo pronostico personale: c’è chi dice Italia, per amor di patria. Chi Brasile, per amore della poesia e del pallone. Qualcuno, per amore di giustizia storica, azzarda Costa d’Avorio, ma forse è troppo. Di certo non mancheranno le curiosità, a questo Mondiale. Su tutte, la nazionale della Corea del Nord. L’ultima volta che partecipò alla fase finale era il 1966: i Beatles erano appena diventati famosi e Pelè era il miglior giocatore del mondo in attività. Riuscirono nell’impresa di batterci, uno a zero, gol di un dentista o presunto tale, si chiamava Pak do-Ik. Questa volta non li affronteremo noi, ma rimanangono di gran lunga la squadra più pittoresca tra le trentadue. Oltre a essere, secondo le statistiche, la più scarsa. Di loro si sa poco: solo che si sono allenati in segreto per sei mesi, che puntano su un attaccante che gioca in Giappone e che hanno tentato di fregare la Fifa cercando di far passare un attacante come terzo portiere. In Corea del Nord le partite della nazionale non le vedranno neanche in tv: il regime non tollera sconfitte, dunque meglio evitare di trasmetterle. Se poi mai dovessero battere il Brasile, o pareggiare con il Portogallo, allora anche i coreani del Nord potranno vederle, registate. Del resto i tifosi che li sosterranno in Sudafrica non sono nordcoreani. Sono comparse cinesi: reclutate (e pagate) per l’occasione. Anche queste sono le storie dei Mondiali.
Intanto sui muri e per le strade delle città sudafricane sono comparsi migliaia di cartelli. C'è scritto: "Ke nako". "E' ora". Si gioca, altro che battaglie.