“Città palladiana”, si dice di solito di Vicenza. “Città del Palladio”. E poi, città bella, ricca, piacevole, da vedere, ideale per passeggiarvi e per gustarvi il baccalà. Con gemme favolose come Piazza dei Signori con la Basilica Palladiana e la Torre Bissara, il Teatro Olimpico, Villa Capra detta la Rotonda. E poi le strepitose collezioni di opere d'arte conservate nel Museo Civico di Palazzo Chiericati, nelle Gallerie di Palazzo Thiene, nel Museo Diocesano, nel Museo Naturalistico Archeologico, nelle Gallerie d'Italia di Palazzo Leoni Montanari (e che dire della favolosa Biblioteca civica Bertoliana?).

Ma come far capire che Vicenza è “una piccola Roma, un'invenzione scenografica” (copyright Guido Piovene) che non ha nulla da invidiare a nessun'altra città d'arte, in particolar modo ad altri capoluoghi veneti (Padova, Verona) molto più frequentati dai turisti? Per rispondere a questa domanda, il Consorzio turistico “Vicenza è” e l'Assessorato comunale a Cultura, turismo e attrattività hanno lanciato un progetto di valorizzazione per proporre la città in un modo nuovo. Per esempio mettendo sotto i riflettori due capolavori, due opere d'arte che da sole, come suol dirsi, “valgono il viaggio”.

Protagonisti dell'itinerario battezzato “Vicenza, città gioiello del Rinascimento” sono il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, nella chiesa di Santa Corona, e la Cena di san Gregorio Magno di Paolo Veronese, nel santuario di Monte Berico: due vette artistiche che Vicenza possiede da sempre ma la cui luce, forse, era un po' oscurata dagli splendori palladiani, premiati con l'inserimento nel Patrimonio Unesco. Nulla di più sbagliato, specie ora (questa la “novità” presa a pretesto per ri-proporli) che sono entrambi reduci da importanti, sfavillanti restauri. Che ne fanno due calamite capaci di attirare i visitatori, di farli deviare dai percorsi più scontati, di farli innamorare del capoluogo berico. 

Panoramica su Vicenza - foto Vicenza è

IL BATTESIMO DI CRISTO DI GIOVANNI BELLINI

La grandiosa pala lignea (410x265 cm) nella chiesa di Santa Corona fu commissionata all'anziano maestro veneziano nel 1502 da un colto mercante di tessuti, il lanaiolo Battista Graziani detto Garzadori, tornato sano e salvo da un viaggio in Terrasanta. Quel fiume Giordano lungo il quale aveva fatto un voto forse non lo avrà poi riconosciuto nel rivolo dipinto da Bellini, in questa grandiosa opera dove la natura si fa scenario del mistero. Qui la Terrasanta si trasferisce nel paesaggio veneto, quella rocca fa pensare a Marostica, quelle montagne ricordano la Valdastico, l'altopiano di Asiago, le Piccole Dolomiti. O forse i Colli Berici, come sosteneva lo scrittore, editore e collezionista vicentino Neri Pozza.

Soprattutto, appare miracolosa la calda luce di miele che si stende sui personaggi e sulla natura, una luce già giorgionesca e quanto mai vicentina, che precorre le parole dello scrittore Guido Piovene per il quale la sua città aveva la fortuna di essere immersa “in un paese dalle luci morbide, rosee, in cui l'aria sembra portare un colore disciolto” (colore roseo, absit iniuria verbis, come il cocktail che Arrigo Cipriani dedicò a Bellini, mixando pesca e Prosecco). Le tinte e le velature del dipinto a olio, invece, hanno riacquistato nuova luce con gli ultimi restauri, da quello di Alessandra Cottone nel 2006-07 (prima dell'esposizione alle Scuderie del Quirinale) all'ultimo intervento, finanziato dalla contessa Caroline Marzotto in memoria del marito Paolo Marzotto: Egidio Arlango lo ha portato a termine nel 2022 focalizzandosi proprio sulla disomogeneità cromatica e sulle discordanze tonali. 

Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, chiesa di Santa Corona, Vicenza - foto Vicenza è​
Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, chiesa di Santa Corona, Vicenza - foto Roberto Copello

Uno splendore, insomma, che ipnotizza con la serenità della scena in cui un Cristo in ieratica posizione frontale ti guarda, apollineo ed eburneo, dal mezzo del quadro. La perfetta verticalità dell'asse che unisce le tre figure trinitarie interseca perpendicolare la linea aranciata delle nubi che separano orizzonte umano e orizzonte divino. C'è persino un pappagallino rosso che prefigura la Passione, ma che ha le ali verdi della speranza (si dibatte se sia stato aggiunto da altra mano, comunque nel XVI secolo). Le tre sgargianti figure angeliche (le figlie del committente?) rimandano alle virtù teologali Fede, Speranza e Carità: due di esse sorreggono vesti di Gesù che hanno gli stessi colori di quelle di Dio Padre, ad attestare l'identica natura di Padre e Figlio. Inoltre la tunica rossa in mano alla Fede, riflettendosi nell'acqua del fiume, dirige una luce rosata su un lato del bianco perizoma di Gesù, effetto che Bellini rende con tenui sfumature lilla, mescolando biacca e lacca di robbia, in un poetico preziosismo che sa già di maniera. Di lui, del resto, non fu detto che era “il più moderno degli antichi, il più antico dei moderni”?

In definitiva, il Battesimo è un'opera d'arte pensierosa e assorta, financo struggente, secondo la spiegazione in chiave autobiografica che ne fece Guido Piovene per la Rai nel 1972: la si trova su Youtube e merita di essere vista. Così come il dipinto merita di essere visto anche da vicinissimo, cogliendone i minuziosi dettagli, dai sassolini sul letto del fume alle pianticelle di trifoglio (altro simbolo trinitario) e alle spighe di grano (simbolo eucaristico) sotto i piedi del Battista.

Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, chiesa di Santa Corona, Vicenza - foto Vicenza è​
Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, chiesa di Santa Corona, Vicenza - foto Roberto Copello

Due soli rammarichi. Il primo. Nel 1819 veniva scritto che “dell'effigie del Padre Eterno rimangono appena i contorni”. Così l'enorme, incongrua figura di Dio Padre che vediamo oggi è quella che fu malamente apposta, rifatta e ridipinta da Giuseppe Gallo Lorenzi nel 1840, il quale con tanti altri ritocchi indignò i vicentini che parlarono di “raffazzonamento” e di quadro “ridotto a un cadavere”. Dunque la parte superiore non è giudicabile, e infatti attrae assai meno lo sguardo dello spettatore. Il secondo. Il Battesimo (firmato Ioannes Bellinus in un cartiglio in basso a destra) catalizza l'attenzione, ma un capolavoro è pure la sua mirabolante cornice: il fantasmagorico altare Garzadori, sontuoso arco di trionfo scolpito da Rocco da Vicenza e da maestri lapicidi comaschi intrecciando una simbolica fauna di tritoni, nereidi, sirene, serpenti, cicogne, unicorni.

Bonus: la chiesa di Santa Corona. Certo, perché al suo interno non c'è solo Bellini. La chiesa si chiama così perché sorse per ospitare la Sacra Spina che Luigi IX di Francia, il re santo, donò al vescovo di Vicenza nel 1261. Ritenuta proveniente dalla corona di spine messa sul capo a Gesù durante la Passione, era incastonata nel medaglione francese del 1260 ospitato nel Reliquiario della Sacra Spina, un capolavoro dell’oreficeria veneta. In chiesa, però, oggi non c'è più: la secolarizzazione non ha risparmiato neppure la più preziosa reliquia cittadina, che sottratta al culto è ora esposta nel Museo Diocesano, come un qualunque reperto. Là, ci si giustifica, almeno si può vederla tutti i giorni, mentre qui accadeva solo un volta all'anno. In Santa Corona ci si consola con altri capolavori. Su tutti, il luminismo cromatico dell'Adorazione dei Magi (1573-75) di Paolo Veronese, su cui il restauro di una decina d'anni fa ha acceso l'interruttore, con effetti quasi illusionistici, specie sui tessuti degli abiti dei Magi. E poi la Madonna delle stelle di Lorenzo Veneziano e Marcello Fogolino, la grande pala della Maddalena e santi di Bartolomeo Montagna, il coro ligneo intarsiato illusionisticamente da Pier Antonio dell’Abate, gli affreschi tardogotici di Michelino da Besozzo, la sovraccarica Cappella del Rosario fresca di un restauro del 2015. Senza parole, infine, lascia il coloratissimo “fumetto di pietra” che corre tutto attorno all'altare maggiore, in un complesso e simbolico apparato iconografico realizzato dal fiorentino Antonio Corberelli tra il 1670 e il 1686, ricoprendo paliotto e tempietto con favolose tarsie di marmi e pietre dure: una meraviglia.

Cappella del Rosario, chiesa di Santa Corona, Vicenza - foto Roberto Copello
Altare maggiore, chiesa di Santa Corona, Vicenza - foto Roberto Copello

LA CENA DI SAN GREGORIO MAGNO DI PAOLO VERONESE

Paolo Caliari detto il Veronese dipinse diverse cene di dimensioni monumentali, inscenate nella cornice di architetture pur esse monumentali. Una, la Cena in casa di Simone, è finita alla Pinacoteca milanese di Brera (dove c'è anche una sua Ultima cena). Un'altra, le Nozze di Cana, è oggi il dipinto più grande esposto al Louvre, dove i suoi 132 personaggi fronteggiano niente meno che la Gioconda leonardesca. Lo “scandaloso” Convito in casa di Levi, commissionato a Veronese nel 1573 per la basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, e per il quale finì davanti all'Inquisizione, ora è alle veneziane Gallerie dell’Accademia. Solo una Cena è rimasta nel luogo dove fu realizzata, la parete di fondo del refettorio della Basilica di Monte Berico, sopra Vicenza.

Basilica di Monte Berico, Vicenza - foto Vicenza è

Si tratta del grande telero di 40 metri quadrati (468 x 861 cm) che con 37 personaggi raffigura la Cena di san Gregorio Magno, capolavoro della maturità del Veronese. Dipinta nel 1572 per i Servi di Maria, ordine religioso che dal 1435 s'era insediato nel santuario, l’opera è un'allegoria pittorica sul tema della carità: papa Gregorio Magno soleva invitare alla sua mensa dodici pellegrini ma un giorno, con sorpresa, scoprì che fra di loro c'era Gesù Cristo stesso (che Veronese raffigura infatti con una conchiglia da pellegrino al petto). Sull'episodio, derivato dalla Legenda aurea, già s'era cimentato nel 1540 Giorgio Vasari, in un quadro (ora alla Pinacoteca Nazionale di Bologna) dove san Gregorio aveva il volto di papa Clemente VII. E non è forse casuale che presso il refettorio dei frati vicentini ci fosse la foresteria del convento, punto di accoglienza proprio dei pellegrini di passaggio.

Cena di San Gregorio Magno, Basilica di Monte Berico, Vicenza - foto De Fina/Musei Civici di Vicenza

Al pari del Battesimo belliniano in Santa Corona, anche la Cena del Veronese fu inviata al sicuro a Firenze durante la prima guerra mondiale, e anch'essa fu duramente provata nel corso dell'Ottocento. Dapprima, nel 1811, fu preda delle spoliazioni napoleoniche e portata a Brera, ove restò sei anni. Il peggio però doveva venire. Tornata a casa, la tela fu oggetto della furia dei soldati austriaci, durante la prima guerra d’indipendenza: il 10 giugno 1848 infierirono su di essa con le baionette, lacerandola in 32 pezzi di varie forme e grandezze. Un atto esecrabile, che indusse poi lo stesso imperatore Francesco Giuseppe a finanziare il restauro, quando per l'Epifania del 1857 visitò Vicenza e il santuario, con al suo fianco la giovanissima moglie Sissi. Così a Venezia, nel 1858, un docente dell’Accademia, Andrea Tagliapietra, poté ricomporre il puzzle, ricucendo fra loro i brandelli del dipinto e nascondendo bene le cicatrici. Ed è impressionante vedere quali furono i tagli praticati dalla soldataglia asburgica, evidenziati in una riproduzione della Cena in bianco e nero appesa alla parete di sinistra del refettorio.

Appare dunque quasi un miracolo poter contemplare l'opera del Veronese in tutto il suo splendore. Ancor più oggi che, dopo gli interventi conservativi del 1931 e del 1972, parecchio invasivi sulla parte pittorica, il grande telero è stato sottoposto a un minuzioso restauro, realizzato da Valentina Piovan tra il 2019 e il 2022. A promuoverlo sono stati il Comune di Vicenza e la Soprintendenza di Verona, Rovigo e Vicenza, con il sostegno di Intesa Sanpaolo per i 30 anni di Restituzioni (il progetto che fu avviato proprio a Vicenza dalla Banca Cattolica del Veneto e che ha restituito alla collettività oltre duemila opere appartenenti al patrimonio italiano). Andando a fondo della tecnica usata dall'artista con indagini chimiche, fisiche e documentali, la delicata operazione ha fatto riemergere numerosi dettagli che erano stati coperti da una velatura di vernice giallo-verdognola e da eccessivi ritocchi, stuccature, riprese a tempera.

Con una scelta indubbiamente coraggiosa, tutte le ridipinture sono state rimosse, mettendo “a nudo” la tela. Quindi il restauro ha riportato alla luce la vivacità della gamma cromatica usata dal pittore, sulla cui tavolozza c'erano malachite e azzurrite, vermiglione e lacche rosse, giallo di piombo e smaltino, e poi il tossico orpimento, detto anche finto oro, composto per un terzo da zolfo e due terzi da arsenico. Si sono distinte le luci dalle ombre, evidenziate le campiture di colore, fatte risaltare persino le singole veloci pennellate del Veronese, soprattutto sui volti e i panneggi. Con una piacevole sorpresa relativa al volto di Cristo (che rivela se stesso al solo papa Gregorio, mostrando il proprio riflesso su un piatto d'argento, mentre gli ignari e distratti commensali continuano a conversare): mai rovinato dai tagli del 1848 né manomesso da restauri, è risultato totalmente integro e non ha avuto bisogno di alcun intervento.

Cena di San Gregorio Magno, Basilica di Monte Berico, Vicenza - foto Roberto Copello
Cena di San Gregorio Magno, particolare prima del restauro; Basilica di Monte Berico, Vicenza

Così ora, grazie anche al nuovo sistema di illuminazione, sono pienamente riemersi i colori nitidi, le luminescenze cangianti, le ombre colorate che fecero la fama del Veronese (il pittore forse si ritrasse nella figura di spalle vestita di giallo). Eccezionale l'architettura del loggiato aperto, forse più romano e raffaellesco che non veneto e palladiano. Impagabili i particolari disseminati qui e là, dai preziosi broccati degli abiti alla prima rappresentazione delle guardie svizzere, dai copricapi dei pellegrini a una fauna altamente simbolica: due cani, un gatto, una scimmia. Il cagnolino in mano a un paggio può ricordare quello, di eccezionale vivezza, dipinto in un angolo della palladiana Villa Barbaro, a Maser. Ma si sa che Veronese per i cani doveva avere una predilezione, tanto che ne disseminò di ogni razza in tele e affreschi (come aveva ironicamente e orgogliosamente ribattuto al'Inquisizione, “noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti”).

Bonus. Il santuario e le sue collezioni. Lungo le pareti dello stesso refettorio di Monte Berico è allineata una serie di vetrine della piccola ma sorprendente collezione di fossili e minerali del santuario, che include un uovo di dinosauro. Ma tutto il santuario merita una visita approfondita, che vi si arrivi per interesse culturale o per fede religiosa. La basilica è infatti da sempre una frequentata meta di pellegrinaggio e un luogo del cuore per i vicentini, che vi possono salire a piedi dalla città lungo il portico settecentesco. Il suo piazzale è il più bel belvedere di Vicenza, offrendo una vista impagabile sulla città e verso la celebre Rotonda palladiana e la pianura. Il complesso sorse sul luogo dove nel 1426 la Madonna apparve a Vincenza Pasini, una donna che portava cibo al marito nei campi, promettendole la fine della peste e chiedendo che in quel luogo le fosse dedicata una chiesa. Dalla chiesetta tardo gotica iniziale il santuario si è andato via via ingrandendo, vedendo all'opera lo stesso Palladio. Cuore del tempio è la venerata statua della Madonna di Monte Berico, opera quattrocentesca di Nicolò da Venezia. Fra i dipinti eccelle, sull'altare a destra, l'aspra, dolorosa Pietà (1500) di Bartolomeo Montagna, il maggior pittore vicentino fra il' 400 e il '500. Assai interessante, poi, è il Museo d'arte sacra allestito su 360 mq. al piano superiore del santuario. Espone circa 300 manufatti, fra cui opere d'arte, arredi liturgici, una bella raccolta di icone postbizantine e un centinaio di ex voto offerti nei secoli alla Madonna di Monte Berico.

Cena di San Gregorio Magno, ex Refettorio del convento, Basilica di Monte Berico, Vicenza - foto Vicenza è

INFORMAZIONI

- Il Battesimo del Bellini è visibile a pagamento nella chiesa di Santa Corona, da martedì a domenica, dalle 9 alle 17; biglietto intero 3 euro.
- La Cena del Veronese si può ammirare tutti i giorni, negli orari di apertura della Basilica di Monte Berico (dalle 7 alle 19 in inverno e dalle 7 alle 20 in estate). Ingresso gratuito.
- Per visitare i monumenti e i musei di Vicenza si può acquistare la Vicenza Card, un biglietto cumulativo valido 8 giorni che permette di visitare 11 luoghi (Teatro Olimpico, Museo Civico di Palazzo Chiericati, Chiesa di Santa Corona, Museo Naturalistico-Archeologico, le Gallerie di Palazzo Thiene, Museo del Risorgimento e della Resistenza, Gallerie d’Italia - Palazzo Leoni Montanari, Museo Diocesano, Palladio Museum, Basilica Palladiana, Museo del Gioiello) oppure la Card 4 musei, valida per 8 giorni e che dà accesso a 4 siti a scelta. 
- Il Consorzio “Vicenza è”, costituito nel 1991 associando enti pubblici, organismi e operatori privati, cura il portale turistico ufficiale di Vicenza e della sua provincia www.vicenzae.org, l'Ufficio Informazione e Accoglienza turistica IAT Vicenza in Piazza Matteotti 12 (tel. 0444 320854, lun-dom, h. 9–17.30) e l'Infopoint Basilica Palladiana, Piazza dei Signori 18 (tel. 0444 222855, mar-dom, h. 10-18).