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Siete a Roma per il Giubileo? Perché non esplorare anche il retaggio di altre religioni? La presenza ebrea a Roma è antica, molto antica. Non dipende da una diaspora imposta, ma da una scelta precisa effettuata nel II secolo a.C. per chiedere il sostegno al senato romano contro Antioco IV che aveva profanato il tempio di Gerusalemme. Oggi il ghetto è una delle zone della movida più di moda, dove mangiare specialità della tradizione e sushi kosher, con una grande area pedonale attivata in funzione anti terrorismo dopo gli attentati di Parigi dello scorso novembre. Ma dove nasce il ghetto più celebre d'Europa?
Ma le differenze non erano solo di status sociale. Un antico detto ebraico afferma che ogni due ebrei ci sono tre opinioni. Questo vale anche per i differenti riti e tradizioni, quindi ecco giustificata la presenza di cinque sinagoghe, ovvero le “scole”, riunite in uno stesso edificio: tre di rito sefardita (catalana, castigliana e siciliana), due di rito italiano (scola Nova e scola Tempio). Nel Museo ebraico c'è un'immagine che mostra come doveva essere all'interno della sinagoga: uomini che chiacchierano, fanno affari e spettegolano. Altro punto fondamentale è che dal ghetto non si poteva uscire se non per lavorare, indossando uno speciale segno di riconoscimento giallo tanto simile a quella stella di David imposta secoli dopo, e si poteva fare solo ciò che era concesso: vendere stracci e prestare a usura. Anche quest'ultima era un'imposizione papale perché un cristiano non poteva prestare denaro a un “fratello”, mentre un ebreo sì. Forse spiegando meglio questa legge si sarebbero evitati parecchi malintesi nel corso dei secoli.
Quindi proviamo a immaginare: un quartiere piccolo, molto affollato, con strade strettissime che impedivano la vista del sole e del cielo, case anche a bordo Tevere con tutto quello che ne conseguiva in termini di inondazioni e pessime condizioni igieniche. Fino al 1870 questa la situazione, poi con la breccia di porta Pia e l'Unità d'Italia il ghetto viene demolito, rimangono solo poche case originali, mentre nuovi edifici sono costruiti negli anni successivi, come la sinagoga, che è del 1904.
Quando un avvocato ebreo newyorchese vuole conoscere in poco tempo questa parte della città chiama lei. E non sbaglia. Perché conosce tutti e tutti la conoscono. Ci tiene a raccontare la storia sia del ghetto sia della gente che ancora ci vive. Dopo le leggi razziali e dopo la guerra, chi poteva se ne andava, era ovvio. Perché rimanere in un posto così? Case diroccate, coi soffitti bassi (se il palazzo dei “gentili” era di due piani, quello dei vicini ebrei ne aveva quattro per la stessa altezza), poco luminose. Ora i vip sono disposti a sborsare milioni di euro pur di stare nel centro della capitale e pazienza se non si riesce a soppalcare, tanto c'è una colonna romana che sbuca da un angolo ed è un vanto mica da poco. Ma è proprio questo il cruccio di Micaela: “Se se ne vanno i 'nostri', chi rimane? Chi la racconta la storia di questo posto?”.
Intanto c'è lei e c'è l'Associazione Kyriac. L'approccio è decisamente informale, ma tanto basta per capire una cosa importante: sono le donne che qui si danno da fare per mantenere vivo uno status che non sempre ha molto a che fare con la religione vera e propria. D'altronde si è ebrei da parte di madre e i padri possono pure stare a guardare. E siccome si sa che gli uomini guardano troppo, sono sempre le donne a osservarli dall'alto nella sinagoga. Da lassù possono vedere tutto meglio: il rabbino che legge i testi sacri, ma anche i coloratissimi dipinti che decorano gli interni. Gli ebrei non hanno icone, quindi chi dovette costruire l'edificio, sicuramente cattolico, fece un po' come dettava la moda liberty dell'epoca: si sbizzarrì tra palme, arcobaleni e stelle. L'effetto è gioioso e decisamente imprevisto. Ecco un altro malinteso sulla cultura ebraica; si pensa che sia triste, cupa, rigida. Anche se è difficile definire un'unica cultura, viste le differenze tra le “scole”, in linea di massima è un culto alla vita e non alla morte. Nonostante tutto, si potrebbe aggiungere, o forse a causa di tutto.
Di tutt'altro tenore, ma emozionante e ad alto volume allo stesso modo, l'uscita da scuola dei ragazzini. Kippah in testa e pantaloni a vita bassa con tanto di mutande in bella vista. Hanno otto anni, ma incarnano quello che è stato e quello che sarà. Anche se con gli occhi puntati sull'ultima app, si siedono accanto alle signore in piazza che hanno visto i loro genitori prima di loro fiondarsi alla pasticceria Boccione per fare merenda. Coi loro nonni hanno vissuto i periodi peggiori, si sono aiutati a vicenda come è normale in una comunità che, in ogni caso, fa fronte comune contro le difficoltà. I bambini degli anni Duemila non sanno che quelle feritoie che si vedono nei muri del ghetto non sono cassette della posta, ma salvadanai in cui ognuno faceva la sua offerta per sostentare i loro coetanei più sfortunati del passato. Forse non sanno un mucchio di cose, ma una cosa la sanno, forse per osmosi: il giudaico-romanesco. E quindi “shalom, ahò!”.
Museo ebraico di Roma, via Catalana (alle spalle della sinagoga), tel. 06.68400661; www.museoebraico.roma.it. Aperto dalla domenica al giovedì dalle 10 alle 16.15, venerdì dalle 9 alle 13.15. Ogni ora, visite guidate alle sinagoghe.
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