
Capire un paesaggio significa saper leggere i segni della storia. «Perché un paesaggio non si guarda, si fa». Le risaie allagate del vercellese, i filari di vita che tappezzano le colline del Prosecco, gli immensi campi di grano del Tavoliere, i fazzoletti di terra strappati alla montagna delle Cinque Terre, sono tutti territori che parlano di chi lo ha abitato, lavorato, trasformato. «E se talvolta ci fermiamo ad ammirare le forme dei campi, le file degli alberi, o le curve delle colline è perché l’uomo nei secoli ha saputo coniugare l’utilità con la bellezza».

La bellezza dei paesaggi del cibo italiano, quelli che disegna Massimo Montanari – storico, tra i massimi esperti di storia dell’alimentazione – in Geografia del gusto, secondo volume della collana Agorà del TCI. «Nella storia italiana il cibo ha un legame profondo e antico con il territorio – spiega Montanari –. Anche se le cose oggi sono in parte cambiate con l’industrializzazione del settore alimentare, è indubbio che ciò che mangiamo è una scelta, frutto dell’interazione tra un ambiente dato dalle condizioni fisiche e la volontà di chi lo abita di creare cibo trasformandolo».

Una trasformazione che ha agito nel lungo periodo, dando vita alla pluralità dei paesaggi del nostro Paese. «L’Italia è un caso esemplare di come le società umane nel corso del tempo interagiscano con lo spazio fisico, agendo per trasformarlo, producendo una biodiversità che non è soltanto figlia dell’orografia frammentaria, ma anche culturale, frutto del lavoro dei popoli che sono passati». Alle volte basta fare un giro in campagna, oltrepassare un fiume o valicare una collina per rendersi conto di questa immensa varietà di paesaggi che poi si riflette con l’immensa varietà della cucina italiana. «Che non è affatto la somma delle cucine locali – spiega Montanari –, ma una moltiplicazione. Il frutto di una ibridazione continua tra le tante cucine di luoghi diversi, tutte sempre con radici popolari che negli anni si sono incontrate, confrontate e mescolate perché questo è un tratto tipico di quella cosa che chiamiamo cultura: la sua capacità di andare oltre i confini politici, di scivolare come l’acqua da un luogo a un altro».

Cucine molteplici che hanno un tratto caratteristico comune, figlio della nostra storia: sono legate agli ambienti urbani, più che ai territori dove si originavano le materie prime. «Le città storicamente sono state il luogo del mercato. Il luogo dove sono state messe in circolazione le culture territoriali, perché è in città che risiedeva il potere economico, e dove avveniva lo scambio dei prodotti con le altre città. Scambio che, almeno a livello delle elites è sempre stato molto intenso, perché le persone che frequentavano le corti viaggiavano, si muovevano, entravano in contatto con gusti, prodotti e preparazioni altre. Non per nulla le ricette hanno sempre una declinazione urbana, tagliatelle alla bolognese, cotoletta alla milanese: se quei piatti non avessero oltrepassato i confini cittadini non ci sarebbe stato motivo di conferirgli una definizione geografica precisa», aggiunge.

Quell’etichetta locale che oggi ha un riferimento preciso al territorio, con le varie Dop, Igp, Stg che lasciano intendere un legame profondo tra prodotto e territorialità ma spesso sono solo marketing. «Le Dop, per motivi di protezione commerciale, creano confini dove non ci sono mai stati, perché il dato culturale in questo caso viene in secondo piano, ma ci sono interessi altri, economici e politici e il discorso si complica».
Quel che è certo è che una volta il gusto che adesso ancoriamo al territorio, territoriale non era. «Anzi: ci si voleva emancipare dalla dittatura di quel che cresceva intorno, si era curiosi, se si era ricchi era importante avere sulla propria tavola prodotti che venivano da altrove. L’idea che si potesse fare cucina basandosi solo sul proprio territorio era estranea alla cucina di corte che era tutta abbastanza simile, il gusto per la cucina locale è arrivato solo tra Sette e Ottocento, e oggi è il trend vincente». Quel gusto della geografia che fa del territorio l’elemento qualificante del sistema gastronomico contemporaneo. «Che è diverso dalla geografia del gusto, qualcosa che ha a che vedere con il lungo periodo, con le caratteristiche del storiche e ambientali, dei territorio».

Quel che è certo, è che tanta ricchezza di gusti è frutto di molteplici paesaggi del cibo, ed è difficile da mappare. «Ci ha provato il TCI nel 1931, con la Guida Gastronomica d’Italia: il primo inventario del patrimonio alimentare italiano. Un censimento capillare che si diceva regionale ma nei fatti, giustamente, concentrava l’analisi su un territorio provinciale che è la scala più appropriata per comprendere la grande diversità di gusti nazionale. La dimensione regionale è più amministrativa, legata alla promozione che possono fare le Regioni come enti territoriali, che rispondente al reale. La vera complessità è data dalla molteplicità dei territori, perché se c’è una dimensione della storia italiana, al netto della circolazione di idee, abitudini e prodotti, è quella del micro».
Il che, a ben vedere complica le cose quando si vuole mappare questa enorme complessità «Oggi manca una cartografia aggiornata, perché è molto difficile mettere su una mappa questi flussi che si ibridano di continuo, si inseguono, mescolandosi e fregandosene di ogni confine regionale, nazionale, locale. Ma cartografare la cultura gastronomica, costruire un vero atlante del cibo italiano è una sfida affascinante, da perseguire».
INFORMAZIONI
Massimo Montanari
Geografia del gusto - Un viaggio in Italia tra i paesaggi del cibo
Touring Club Italiano, 2025, pagine 96
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