Nella nuova Guida Verde Boston e New England, i Percorsi d'autore sono di Lorenza Pieri, scrittrice, giornalista, traduttrice, drammaturga. Naturalizzata americana, attualmente insegna scrittura creativa a Milano.
Riportiamo qui il racconto della sua visita a Orchard House, la casa natale di Louisa May Alcott, a Concord, presso Boston, sulle tracce di "Piccole donne".

Ho avuto la fortuna sfacciata di visitare per la prima volta Boston e il New England in una settimana autunnale soleggiata e calda, che credo sia il momento più propizio possibile per chi ama la natura, i boschi e quel fenomeno che adesso anche noi chiamiamo foliage, ma altro non è che la meraviglia mutevole dei colori della vegetazione in autunno. Il foliage a Boston e nei dintorni è strepitoso per via della quantità e della varietà di alberi presenti in città, ma anche perché, quando sulla costa atlantica capita la Indian Summer (più o meno l’evento meteorologico che per noi corrisponde all’estate di San Martino), ci sono giornate con un cielo terso e una luce senza eguali, dove il giallo dei gingko si accende fino a brillare e il rosso degli aceri e delle querce esplode fiammeggiando.

Sono partita per andare a visitare la casa di Louisa May Alcott a Concord, un paesino a una trentina di chilometri da Boston, in una giornata così. È stata l’esperienza più low tech che potessi immaginare, dato anche il contrasto con una visita al MIT qualche ora prima: ritrovarmi con un biglietto di carta in mano, su un trenino locale con i sedili di legno, i finestrini con il vetro rigato da cui vedevo solo boschi e casette di campagna, arrivare in una stazione locale senza sottopassaggio e attraversare i binari senza nessuna precauzione oltre a guardare a destra e sinistra mi ha fatto una certa impressione, da tuffo nel passato.

Per arrivare dalla stazioncina di Concord alla casa di Piccole donne c’è una passeggiata di circa mezz’ora, che ho fatto nell’incanto più assoluto, fermandomi a raccogliere le foglie da terra per comporre un mazzo colorato da seccare, guardando senza invidia le persone impegnate a raccogliere le stesse foglie per farne sacchi da buttare, pulire i giardini, i vialetti, i marciapiedi (quel lavoro autunnale l’ho fatto anch’io per un po’ di anni. Le prime volte con molto divertimento; con i miei figli ancora piccoli giocavamo a sparare le foglie col blower e a scompigliarle, poi col tempo i ragazzi non mi aiutavano più ed era tutta una cosa di rastrello e mal di schiena). Salutavo i giardinieri solidale, col mio mazzetto rosso e giallo in mano.

L’area di Concord, un paesino circondato dai boschi, è famosa per aver accolto a metà Ottocento un buon numero di intellettuali, scrittori e poeti, tra cui Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson, Nathaniel Hawthorne e naturalmente Louisa May Alcott. Durante quella passeggiata ho capito Thoreau, il suo desiderio di starsene solo in mezzo ai boschi, in compagnia di quegli alberi benevoli; tutto ciò che ha raccontato in Walden era sotto i miei occhi. Ogni auto che passava (per fortuna poche) sembrava un’offesa a me e al mondo, ogni traccia umana qualcosa che guastava l’armonia.

Orchard House, la casa degli Alcott trasformata nella ‘Casa di Piccole donne’, è un cottage di legno con la porta turchese, tra la strada principale e il bosco. È bello pensare che il bosco fosse dappertutto. Di fronte all’ingresso della biglietteria un piccolo giardino fiorito mi ricorda le scelte delle sorelle March, nel capitolo dieci del romanzo: un quarto di terra ciascuna, ognuna pianta quello che più somiglia al proprio carattere; Meg le rose, Jo ogni anno qualcosa di diverso (quest’anno piccoli girasoli), Beth fiori antichi e profumati, Amy gigli bianchi. La signora della biglietteria ha una frangia bionda così geometricamente fonata da sembrare la cascatella artificiale di una chiusa. Parla a voce altissima ed è di una gentilezza affettata e antica che fa pensare a un tirocinio per sembrare uscita dalla penna della Alcott lei stessa. Mentre aspetto il mio turno grida alla signora che sta comprando le bamboline che ce ne sono anche altre con vestiti diversi. Ci sono edizioni di Piccole donne di ogni formato e riduzione e – ci casco subito – vendono una copia in pile dello scribbling cap di Jo, quella berretta di lana con il fiocchino rosso in fondo, deliziosamente descritta nel ventisettesimo capitolo, che la ragazza indossa quando viene travolta dalla scrittura a vortice e la famiglia non si azzarda a disturbarla (ce l’ho in testa in questo momento. Col fiocchino davanti. E funziona, miscredenti! Anche se mia figlia mi passa davanti e ride, «Che cos’hai in testa?»).

Gli Alcott erano una famiglia semplice. Il padre era un insegnante che credeva nel valore sacro della conoscenza e non era interessato ad altro che alla sua missione di maestro. La loro casa era sobria e confortevole e la guida, una signora gentile e magrolina (anche lei sembrava uscita da Piccole donne), ci racconta che cosa è stato aggiunto e comprato dopo il successo del romanzo (una stufa, un annesso per il salotto e il pianoforte). Invece di rimproverarmi direttamente, visto che sono l’unica che fa le foto, ricorda a tutto il gruppo che è proibito fare fotografie e filmati. Non avevo capito la regola e mi dispiaccio molto, metto via il cellulare dopo aver preso uno scatto della tavola apparecchiata (particolare di cui non mi importa niente), ma vengo sgridata proprio quando arriva il soggetto che avrei voluto fotografare davvero, i quadri di May, la vera sorella di Louisa, aspirante pittrice, che grazie ai soldi del bestseller di sua sorella riuscì ad andare in Italia a dipingere. May mandava a casa copie di Turner, ritratti, il bellissimo quadro di una civetta che Louisa aveva sistemato accanto al letto.

La guida ci ricorda che Piccole donne è il libro che ha venduto di più della sua epoca, anche più di tutti quelli di Mark Twain messi insieme, e che la Alcott non era ricca ma lo è diventata grazie alla scrittura. Probabilmente è stata la prima scrittrice nella storia nata in una famiglia modesta e diventata ricca grazie a un libro. Noi tutte siamo grate a Louisa May Alcott, non solo perché Piccole donne ha fatto felici tante ragazzine di diverse generazioni (non siamo forse state tutte Jo per almeno qualche pomeriggio?), ma anche perché ha lottato per tenersi i diritti d’autore e non cederli per sempre all’editore. In quel caso non avrebbe potuto mandare sua sorella May in Italia, non avrebbe costituito quel precedente fondamentale a cui ogni scrittrice aspira: ancora prima di una stanza tutta per sé è importante avere una rendita, e se la rendita arriva dalla vendita dei tuoi libri, ecco l’emancipazione. Quindi grazie Louisa per le royalties e grazie dopo, Virginia, per la stanza.

La guida ci ha chiesto se volessimo rivolgere una domanda al busto della Alcott; lei avrebbe potuto risponderci. Nessuno l’ha fatto. O meglio, nessuno l’ha fatto ad alta voce. Mentalmente le ho chiesto se sarei riuscita a terminare il mio romanzo entro la fine dell’anno. Il busto di gesso mi ha guardato severo e fisso, e ho capito la risposta. Nella borsa ho toccato la berretta di Jo, ho confidato in lei per sperare in me.

Mi sono distratta. La guida parla di Thoreau, capto la citazione di un suo aforisma ma sicuramente l’ho capito male, una cosa del tipo «Presta attenzione alle stelle, perché siamo fatti di stelle». Cerco in rete gli aforismi di Thoreau e non lo trovo, nemmeno uno simile: come poteva saperlo Thoreau che siamo fatti di stelle, le teorie del Big Bang sono arrivate molto dopo... Chiaramente me lo sono immaginato. Ma l’aforisma sbagliato mi è rimasto in testa nel suo nonsense astratto e poetico, forse lo userò nel prossimo romanzo. Del resto me l’ha suggerito la Alcott.

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(foto Shutterstock)