
Nel corso del tempo si sono confrontati modi diversi, addirittura opposti di pensare il rapporto terra-prodotto, talora dando al terroir una priorità assoluta nella definizione della qualità e della specificità del prodotto, talaltra considerandolo secondario o addirittura ininfluente. Prendo come esempio il vino, e i criteri di valutazione della sua qualità nella cultura agronomica romana e in quella medievale.
Gli agronomi romani non avevano dubbi: le qualità di un vino dipendono dalla qualità del terreno, al punto da rendere superflua la stessa descrizione dei vitigni. Di vitigni si parla, certo: Columella (il più preciso e competente degli agronomi romani, autore nel I secolo di un fondamentale trattato De re rustica) ne fa la lista e li descrive attentamente. Lo stesso fa Plinio il Vecchio, che nella sua enciclopedica Naturalis Historia (I secolo) compendia una cultura ormai consolidata.
Tutti però convengono che sia il terreno, ben più che il vitigno, a dare sostanza al vino: su ciò è chiarissimo lo stesso Plinio quando, dopo avere elencato decine e decine di vini, e i loro sapori, e le località in cui si producono migliori, bruscamente conclude che in ogni caso “risulta evidente che influiscono la regione [patria] e il tipo di terreno [terra], non l’uva” (XIV, 70). Ragion per cui è inutile fare un inventario completo di tutte le specie di vitigni, “giacché una stessa vite dà risultati diversi a seconda dei luoghi”. Nel Medioevo questo schema mentale si inverte.

AGRONOMI ROMANI E MEDIEVALI, IL TERROIR NON È UGUALE PER TUTTI
L’idea che comincia a prevalere è che sia il vitigno, più del terreno, a determinare la qualità del prodotto. Perciò si cerca di riprodurre in loco il gusto di vini nuovi o esotici. Si ricercano i vitigni orientali, di Creta o di Cipro, famosi per la dolcezza del loro vino, per impiantarli nelle terre d’Occidente. Si favorisce l’impianto di vitigni alla moda, come il Moscato, parimenti amato per la sua dolcezza, che, per esempio in Piemonte, le autorità comunali impongono ai proprietari terrieri di piantare nelle loro terre. Al vitigno, prima che al terreno, pensa Piero de’ Crescenzi, il più importante agronomo italiano del Medioevo, quando nel Liber ruralium commodorum tratta della preparazione del vino: le considerazioni che dedica alle varie specie, alle cure con cui devono essere trattate, prevalgono su quelle dedicate al lavoro della terra e al tipo di suolo che conviene scegliere per coltivarle.
Non che ignori la differenza fra un terreno di pianura e uno di collina; ma è indubbio che “agli occhi degli agronomi [medievali], il fattore determinante è la scelta del vitigno” (Jean-Louis Gaulin). Nell’ottica di Crescenzi, ciò che conta per chi coltiva – e per chi beve – è la descrizione della specie botanica.
Un’esilarante novella di Franco Sacchetti, scrittore che visse a Firenze nel XIV secolo, ben illustrata in un lavoro di Yann Grappe da cui ho tratto la sostanza di questa argomentazione, mette in luce la nuova prospettiva medievale che pone il terroir in secondo piano rispetto al vitigno (e, volendo generalizzare l’idea, rispetto a ogni prodotto, di cui si dà per inteso che possa essere impiantato e acclimatato ovunque si desideri).
Premessa della novella di Sacchetti (Trecentonovelle, CLXXVII) è lo straordinario “studio divino” – il gioco di parole è scoperto – che da tempo si vede praticato da “gran parte delli Italiani” che in ogni modo cercano di procurarsi “perfettissimi vini” curandosi di farsi mandare da ogni parte non solo vino, ma anche magliuoli, ossia vitigni.
Ed ecco la storia: un gran cavaliere di Firenze, messer Vieri de’ Bardi, “per vaghezza di porre nel suo [nelle sue proprietà] alcuno nobile vino straniero, pensò trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Corniglia”. Scrive dunque a un amico, messer Niccoloso Manieri da Portovenere, per farsi mandare quei magliuoli di vernaccia. Finalmente i magliuoli arrivano, ma a questo punto il pievano dell’Antella, a cui messer Vieri aveva raccontato il suo progetto, pensa di giocargli uno scherzo. Chiama due contadini, gli fa dissotterrare alcuni vitigni della sua vigna – “certe sue pergole d’uve angiole e verdoline e sancolombane e altri vitigni” e li fa portare sul terreno di messer Vieri, sostituendoli ai magliuoli di vernaccia.
Loro eseguono. Due anni dopo, quando nascono le prime uve, Vieri trova strani questi prodotti e comincia ad assaggiarli; non è convinto, e per verificare fino in fondo la loro qualità ne sente quasi tutti i grappoli, fino a sentirsi male “per lo ’nfiamento del dolore e per lo mangiare degli acini”. Subito scrive a messer Niccoloso lamentandosi di avergli mandato dei “vitigni dolorosi e tristi”, ma quello gli assicura che erano ottimi magliuoli di vernaccia, e che qualcuno deve averli sostituiti. Vieri si informa: qualcuno in zona ha piantato vernaccia? Non ci vuol molto a risalire al pievano, e Vieri medita vendetta – ma non potrà fare nulla, perché proprio allora la famiglia dei Bardi è cacciata da Firenze.

Al di là del suo aspetto comico, la novella testimonia questa pratica – riportata come consueta fra gli italiani del tempo – di procurarsi e piantare differenti varietà di vitigni per produrre vini di qualità. È un’abitudine, confermata dai contratti agrari e dagli atti pubblici, che faceva circolare vigne e magliuoli da una regione all’altra. Alla faccia del terroir.
Questi due modi di rapportarsi alla realtà del territorio e dei prodotti – quello “romano” e quello “medievale” – fanno entrambi parte della nostra eredità. Ma non c’è dubbio che alcune culture, quella francese anzitutto, sono decisamente più vicine alla prospettiva “romana”; altre, come quella italiana, risentono molto della prospettiva “medievale”. Basta guardare le bottiglie e le etichette. Su quelle francesi, il più delle volte, del vitigno di origine non c’è neppure menzione; spicca il terroir, spicca il luogo, spicca la definizione geografica. Su quelle italiane, l’indicazione del vitigno non manca mai e spesso è quello che dà nome al vino.
Sono storie diverse, che ovviamente si incrociano e interagiscono, come sempre hanno fatto nella storia: gli agronomi romani conoscevano bene l’importanza del vitigno, quelli medievali conoscevano bene l’importanza del terreno; ciò non toglie che la dialettica fra le due visioni abbia dato origine a culture differenti. Il terroir non è uguale per tutti.

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