Quando viaggiare non è un’opzione praticabile peri motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni…
Ecco la ventinovesima puntata.
«Amo le terre ex sovietiche e loro amano me. Sono sensibile all’estetica dello sfascio. Nulla mi piace di più di una cittadina che si chiama Komsol o Partizan, semiderserta, che sgocciola fanghi di perforazione sotto un cielo d’acciaio, appoggiata alle stampelle di piloni storti e tralicci, abitata da ubriaconi, da hooligan, da ragazze imbronciate e da anziani che rimpiangono l’Unione Sovietica». Se leggendo questa frase non vi viene un fremito lungo la schiena; se il vostro primo istinto non è esclamare: «Sì, esatto, è proprio questo!»; se non avete avuto la sensazione di essere finalmente arrivati in qualche modo a casa, allora questo libro (e questa recensione) non fa per voi. Potete anche evitare di andare avanti.
Ma se per caso siete anche voi attratti dall’estetica dello sfascio, se siete inspiegabilmente attirati da tutta la ruggine che ancora si accumula su mondo ex sovietico, se non capite bene perché, eppure siete calamitati dai deserti dell’Asia Centrale, ma più ancora da tutte le crepe che si incontrano nella mappa scolorita di questa parte del mondo allora questo libro poco noto perché poco ha circolato, è una vera scoperta.
Perché viaggiare nell’ex Urss è una religione e Sylvain Tesson è il suo profeta. Certo, ci sono altri scrittori magnifici che hanno raccontato la Siberia e l’Asia Centrale, che hanno visto e hanno scritto con dovizia di particolari, esibizione di sapere e ricchezza di linguaggio, Colin Thubron su tutti. Ma nessuno è stato così emotivamente trascinante e cosi bravo a raccontare di quella strana, oggettivamente insensata, attrazione per le terre ex sovietiche. Perché, ammettiamolo, possono essere belle ma non sono mai bellissime. Perché, come scrive Tesson: «Settantant’anni di materialismo storico hanno ucciso negli abitanti ogni senso estetico». Del resto quelle terre non sono la Toscana, ma neanche la campagna polacca. E del resto Tesson è uno capace di sostenere che «gli oleodotti costituiscono un invito al viaggio. Disegnano itinerari eccitanti». Gli oleodotti, eccitanti.
Ed è proprio perseguire il percorso di un oleodotto che Tesson si è messo in viaggio anni fa per scrivere
Baku, elogio dell’energia vagabonda. Un libro che racconta di un viaggio in bicicletta in solitaria per seguire il percorso dell’oleodotto che unisce Baku con Cheyan, nel sud della Turchia, quasi al confine con la Siria. Un viaggio che in realtà inizia molto prima, in
Uzbekistan, a Nukus, capitale del Karakalpakistan dove Tesson si mette in viaggio perché vuole seguire la via del petrolio che da qui porta ad Aktau, in Kazakistan, e poi attraversa il Caspio.
Ma la sua attrazione per le steppe e le solitudini si capisce forse ancora meglio leggende Nelle foreste siberiane, il diario (edito da Sellerio) di un anno passato in una capanna sul lago Baikal, in Siberia. Da solo. Un eremitaggio di quattro stagioni condotto a circa 120 chilometri dal primo villaggio stabilmente abitato, un posto dove si è rinato quando si è accordo che il viaggiare, il movimento non gli dava più quelle sensazioni che andava cercando. Un'esperienza che, almeno in Francia, tradotto su carta l'ha portato al successo letterario.
Quasi cinquantenne, laureato in geografia,
Sylvain Tesson è uno scrittore francese con quel tanto di egocentrismo e superbia che lo fanno assomigliare a un altro autore francese che però scrive ancora meglio, il più sedentario Carrére. Ultimamente tradotto in Italia da Sellerio,
Tesson rappresenta la sintesi perfetta tra Ambrogio Fogar e Tiziano Terzani.
Come Fogar, ma senza Armaduck, Tesson ha certa vena di follia che lo porta a intraprendere avventure estreme: come quando è andato a cavallo dalla Siberia all’India per seguire il percorso di un dissidente fuggito dai gulag sovietici; o come quando, lo racconta in Sentieri Neri (edito da Sellerio) per riprendersi da un grave incidente (era caduto mentre si arrampicava sulla facciata di un palazzo) ha attraversato la Francia da Sud e Nord, a piedi, nonostante l’incidente avesse compromesso le sue capacità motorie.
A questo associa una capacità di scrittura notevole, per cui riesce a spogliare la pagina del superfluo, concrentrandosi sull'osservazione, con una predilezione per quello che non è in ordine, che non è scontato, che è screpolato e racconta una storia. Pagine che sono sempre zeppe di riflessioni fulminanti, che oscillano tra il sociologico e l’esistenziale. E tutto mentre racconta dell’attraversamento di deserti tremendi, come il Kyzylkum, in Kazakistan. Non per nulla in epigrafe a Baku, elogio dell’energia vagabonda ha scelto una frase di Checov che riassume la sua filosofia di vita. «Vado a zonzo nella steppa. Non posso restare a casa. Non posso».
Di tutta la sua produzione questo libro dedicato all'Asia Centrale ha un solo, relativo, problema. Si trova con difficoltà. L’editore italiano, Excelsior 1881, è fallito, dunque lo si deve cercare nei negozi di libri usati, o in biblioteca. Ma forse, a ben vedere, questa difficoltà nel reperirlo si addice bene a un libro così.
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