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Calabria, oggi. Chi parte e chi resta, a difendere le tradizioni e il territorio: storie di giovani uomini e di giovani donne che dai boschi della Sila ai vigneti lungo la costa ionica producono pane, vino, liquori, alta cucina rigorosamente calabresi.
La cipolla rossa di Tropea, il tonno Callipo, il riso Carnaroli di Sibari sono i primi nomi che hanno raccontato al resto d’Italia che la Calabria non è “quella terra del Sud dove c’è solo il peperoncino (e di conseguenza la ‘nduja)”. Perché i luoghi comuni sono duri a morire, soprattutto verso una regione come questa, distante e complessa. Come le Marche, dovremmo declinarla al plurale, le Calabrie, perché le realtà sono tante, complesse e distanti. In mezzo ci sono le montagne, la Sila, il Pollino e strade che più che unire dividono.
In questo scenario complicato si leva una voce: vantatevinne. Sii orgoglioso. Lo diceva la nonna a Franco, da ragazzino, ogni volta che faceva – o provava a fare – qualcosa di bello. Oggi Franco Laratta, giornalista, ha 61 anni e ha scelto quella frase come titolo del suo ultimo libro, in cui racconta tante piccole storie di giovani uomini, giovani donne calabresi che fanno impresa in Calabria, dimostrando anzitutto di essere legati al territorio. Eccone alcune.
In quel di Montalto Uffugo, nel Cosentino, Ivano Trombino produce un amaro che è stato premiato ai World Liqueur Awards 2019, in Inghilterra, come il migliore al mondo. Porta con sé i profumi della terra: bergamotto, rosmarino, origano. Si chiama Jefferson, ma è italianissimo. E porta alto il nome della Calabria nel mondo.
A Cirò Marina c’è Massimiliano Capoano che dal 2005 gestisce l’azienda vinicola di famiglia: i baroni Capoano hanno origine antichissima, ma solo dal 1997 hanno iniziato a produrre vini bianchi, rossi e rosati. Venti ettari di terreno, colline affacciate sul mare dove la parola d’ordine è «qualità prima che quantità». Il cirò doc è il fiore all’occhiello, un vino così ricco di storia che era offerto ai vincitori delle Olimpiadi di Atene, nell’antica Grecia. Il nettare degli dèi non arrivava dall’Olimpo, ma dalla Calabria.
Poi c’è Caterina Ceraudo, una stella Michelin, alla guida del ristorante Dattilo a Strongoli (Kr), presso la cantina-agriturismo di famiglia. Allieva del grande chef abruzzese Niko Romito, è tornata qui, a due passi dal mare, tra Cirò Marina e Capo Rizzuto. Caterina valorizza le materie prime del territorio. «Felice è colui che fa felici gli altri» è il motto che accoglie gli ospiti nell’agriturismo di famiglia. Un motto, e molti sorrisi.
Infine a San Floro c’è Stefano Caccavaro. «Alla fine del 2015 semino un ettaro di grano duro Senatore Cappelli. Un amico fornaio mi spiega la differenza fra le macine industriali e quelle in pietra. E io scelgo la pietra. Anche se non si usa più. Ma noi torniamo indietro per andare avanti.»
Dal grano alla farina, al pane. All’inizio 25 pagnotte al giorno, con la farina integrale e il lievito madre perché qui si è sempre fatto così. Nonna battezza il pane Brunetto, perché è scuro, come quello di una volta.
Così è nato il Mulinum di Stefano, un po’ mulino un po’ panificio un po’ pizzeria. I più moderni dicono start up. «Tutto senza un euro di soldi pubblici», sottolinea. Il progetto Mulinum sta partendo anche in Toscana, in Campania e in Sicilia. Nel frattempo il Brunetto è premiato come miglior pane artigianale d’Italia 2019. È il fiore all’occhiello di una produzione che comprende pani di lievito madre a bassissima acidità, con semi di zucca, girasole e sesamo, con olive e pomodorini secchi, con mandorle e curcuma. E quando lo assaggi, non assaggi solo pane, ma senti tutto il sapore di questa terra. «Nulla di tutto questo sarebbe successo se me ne fossi andato», sottolinea Stefano. Mulinum è oggi il più grande caso italiano di crowdfunding nel settore agricolo: oltre un milione e 400mila euro raccolti.
«Ognuno si porta a casa un pezzetto della nostra storia, non tutta la storia: la farina, l’orto, il lievito madre... Un pezzetto della nostra storia, e il pane. Il nostro pane.» conclude Stefano. Vantatevinne, ragazzo. Vantatevinne.
Dal grano alla farina, al pane. All’inizio 25 pagnotte al giorno, con la farina integrale e il lievito madre perché qui si è sempre fatto così. Nonna battezza il pane Brunetto, perché è scuro, come quello di una volta.
Così è nato il Mulinum di Stefano, un po’ mulino un po’ panificio un po’ pizzeria. I più moderni dicono start up. «Tutto senza un euro di soldi pubblici», sottolinea. Il progetto Mulinum sta partendo anche in Toscana, in Campania e in Sicilia. Nel frattempo il Brunetto è premiato come miglior pane artigianale d’Italia 2019. È il fiore all’occhiello di una produzione che comprende pani di lievito madre a bassissima acidità, con semi di zucca, girasole e sesamo, con olive e pomodorini secchi, con mandorle e curcuma. E quando lo assaggi, non assaggi solo pane, ma senti tutto il sapore di questa terra. «Nulla di tutto questo sarebbe successo se me ne fossi andato», sottolinea Stefano. Mulinum è oggi il più grande caso italiano di crowdfunding nel settore agricolo: oltre un milione e 400mila euro raccolti.
«Ognuno si porta a casa un pezzetto della nostra storia, non tutta la storia: la farina, l’orto, il lievito madre... Un pezzetto della nostra storia, e il pane. Il nostro pane.» conclude Stefano. Vantatevinne, ragazzo. Vantatevinne.
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