Gli aerei riprendono a volare e c’è chi prova a fare i conti dei danni economici causati da quasi una settimana di stop ai voli in gran parte d’Europa. Il vulcano islandese dal nome impronunciabile (Eyjafjöll, lo trovate puntualmente indicato nella Guida Verde Touring nei dintorni di Hvolsvöllur) secondo un centro studi australiano potrebbe avere un impatto da due miliardi di dollari sul mondo del trasporto aereo. In Italia c’è chi parla di 200 milioni di euro al giorno di perdite per le compagnie e chi valuta in quasi 400 milioni di euro il contraccolpo sull’universo turismo tra prenotazioni cancellate, mancati arrivi di turisti e vacanze rimandate.
Il danno più grave, però, è di immagine sia per le istituzioni chiamate a (non) gestire questa emergenza continentale sia per gran parte degli attori di questo disastro. Chi in questa settimana è rientrato da una vacanza o da un viaggio di lavoro all’estero ha sperimentato in prima persona come di fatto l’unico strumento valido fosse il fai-da-te. Che si sia tornati dalla Romania su uno dei minibus solitamente utilizzati da chi lavora nelle nostre fabbriche o si sia scelto il taxi per rientrare da un’escursione al circolo polare artico (con una spesa, a conti fatti, di poco superiore al costo di un biglietto aereo a tariffa piena, peraltro) è stato il trionfo dell’arte di arrangiarsi.
Le compagnie aeree hanno (non sempre) distribuito buoni pernottamento per la prima notte, i governi hanno fatto piazzare un po’ di brandine negli aereoporti, le ferrovie hanno annunciato il tutto esaurito sui convogli, i noleggiatori di auto hanno “tosato” senza pietà chi ha utilizzato il drop-off (riconsegna della vettura in un paese diverso da quello di origine) e le autorità comunitarie sono state fondamentalmente alla finestra. Anche le compagnie low-cost, paladine dell’innovazione sul mercato, si sono elegantemente defilate, annunciando in tutta semplicità che rimborseranno i biglietti.
E i clienti? Quei personaggi che la cultura del customer care vorrebbe “re”? Abbandonati. Basta pensare alle migliaia di viaggiatori bloccati negli scali di Usa, Australia e Asia per la chiusura degli hub di Londra e Parigi: gli aeroporti di Milano e Roma sono rimasti chiusi per una frazione di tempo ridicola rispetto alla serrata di Heatrow e Charles de Gaulle, ma nessuno ha mai pensato di dirottare lì i voli, magari poi mettendo a disposizione bus o treni speciali per raggiungere la destinazione finale. Per non parlare di chi non era ancora partito e, noto che i voli erano bloccati, ha dovuto comunque recarsi fino allo scalo di non-partenza – magari percorrendo centinaia di chilometri – per far vidimare il biglietto, pena il mancato rimborso da parte del tour operator.
Non va dimenticato poi, in un momento di grave crisi economica come l’attuale, che le risorse di aziende e famiglie sono limitate: in questi giorni di viaggi e rientri avventurosi molti viaggiatori hanno “bruciato” cifre non indifferenti, se non l’intero budget “travel&entertainment” dell’anno. Il rischio che l’onda lunga della cenere islandese si rifletta sulla stagione turistica prossima ventura è tutt’altro he remoto…