Il buio, sul Giro, però è calato ieri mattina, alla partenza da Morbegno. Un’improvvisa, e forse improvvisata, protesta dei corridori – o solo di una parte dei corridori, non si è capito bene – ha fatto “saltare” gran parte della terzultima tappa che, dalla bassa Valtellina arrivava ad Asti. Era una mattina di pioggia battente di fine ottobre, come prevedibile che ce ne fossero in questa stagione – questo Giro autunnale è già stato incredibilmente favorito dal dio delle nuvole e della pioggia – e neppure particolarmente fredda. Vero, ci si arrivava dopo oltre 3000 km percorsi e corsi; dopo giorni di tensione e timore per l’assedio del Covid19, che era riuscito a penetrare nella “bolla del Giro” e a colpire qualche bersaglio; forse anche dopo un malcelato senso di sospetti reciproci tra squadre e organizzazione della corsa su come è stata gestita questa avventura che tuttavia, fin da quando è stata annunciata, la primavera scorsa, aveva evidenti tutte le caratteristiche di una sfida portata al limite della sua realizzabilità. Precarietà e tensioni acuite dalla recrudescenza, forse questa non del tutto prevedibile, della pandemia.
Il Giro d'Italia, tappa 19 - foto LaPresse
Il Giro d'Italia, tappa 19 - la Maglia Rosa entra in auto dopo la decisione di annullare i primi 100 km - foto LaPresse
Il Giro d’Italia non è semplicemente una corsa. Come tutti gli eventi sportivi, e a maggior ragione come tutti gli eventi sportivi che si svolgono “on the road”, è una complessa macchina, anche economica, di lunga pianificazione, di accordi, di contratti con le amministrazioni dei territori attraversati. Il “colpo di mano” di Morbegno è stato un insulto inferto non soltanto all’organizzazione del Giro, ma a tutto il sistema che vi ruota intorno: dagli spettatori agli sponsor, ai media. Quello che tuttavia ne è derivato ha svelato una dimensione sulla quale è bene che tutti si rifletta. Gli “scioperi” per definizione hanno obiettivi da colpire e non sono mai gratuiti, né in un senso, né nell’altro. Definirli atti irresponsabili a priori, e stigmatizzarli come indebito e insostenibile “affronto al sistema”, rivela purtroppo come ormai il tessuto della dialettica nel mondo del lavoro si sia talmente logorato, al punto che gli stessi lavoratori, in questo caso i ciclisti, hanno sbagliato tempi, modi e forse anche strumenti – i rappresentanti, i delegati di categoria – per far valere le proprie legittime rivendicazioni. E che la controparte – un vasto fronte che annovera i rappresentanti dell’organizzazione, la stragrande maggioranza dei media, il popolo dei tifosi che ora si rivolta contro i protagonisti dello spettacolo che gli è stato sottratto – si arrocca dietro a un “pensiero unico dominante”. Accusare variamente la categoria dei ciclisti di ingratitudine, di insensibilità, di mollezza atletica e morale.
La riflessione a cui tutti si deve essere chiamati è che lo sport inteso come show-business, inevitabilmente sempre meno sport e sempre più business, necessita di riacquistare un altro, e meglio definito, scenario di confronto tra le parti in gioco, per non di dover incorrere ad azioni, come quella di ieri, con tempistiche e modalità che inevitabilmente prestano il fianco a facili stigmatizzazioni. I lavoratori ciclisti hanno il bisogno di essere rappresentati da figure di diverso spessore e competenza: con la morte nel cuore, per quanto l'ho amato come amletico campione della mia gioventù tifosa, Gianni Bugno, presidente del CPA, il “sindacato” internazionale dei ciclisti professionisti, in questo Giro ha rivestito lo scomodo, e credo incompatibile con la sua funzione istituzionale, di ruolo di commentatore tecnico per la RAI. Dall’altro lato ci si è disabituati, e non per colpa del ciclismo, che il “mestiere del ciclista” è comunque il centro imprescindibile della grande giostra di entertainment e commerciale: e senza i ciclisti niente ha più senso. Riconsiderare dunque spazi e tempi della sceneggiatura che gli attori devono intepretare, in primo luogo come atleti: è un discorso che si apre ai calendari di tutto l’anno, e non solo all’articolazione dei tracciati dei grandi giri, con luoghi di partenza ormai sempre disgiunti, e spesso geograficamente distanti, da quelli di arrivo per evidenti motivi di convenienza economica. Ieri, dunque, è stato un brutto giorno di questo bel Giro: ma potrebbe essere utile ricominciare dalla pioggia (tiepida) di Morbegno per riaffrontare il tema di cosa significa fare il corridore ciclista all’inizio del terzo decennio del terzo millennio, un mestiere che non può essere uguale a quello di Eberardo Pavesi, ma neppure a quelli Coppi e Bartali, di Gaul e Nencini, di Merckx e Hinault, e neppure a quello del Van de Velde congelato sul Gavia.
Il Giro d'Italia, tappa 19 - foto LaPresse
Possiamo quindi dire che a Masio, poco meno di 1400 abitanti distribuiti in 22 km2 circa di superficie, si trovano le più antiche radici del Giro d’Italia. Anche in questa tappa strana, scorciata dalla protesta dei ciclisti alla partenza, non si poteva rinunciare a una sosta ad Abazia, la frazione di Masio, non molto lontano dal castello di Monvicino dove, figlio di un contadino, nel 1865 nacque Eliso Rivera, che amava firmarsi con uno pseudonimo, Eliso delle Roncaglie (spesso abbreviato nella sigla EDR), da un nome di una borgata del suo paese d’origine. Sportsman – è tra i primi a cimentarsi in gare di velocipede, quando Alessandria era la capitale del nascente sport – , intraprendente pubblicista, volitivo militante politico di vocazione democratica – fonda a Masio una Società operaia di Mutuo Soccorso, poi dirigente dell’Unione velocipedistica italiana e agguerrito avvocato, Rivera tra le due guerra lascia l’Italia per emigrare in Argentina. Anche qui si dedica anima e corpo all’attività giornalistica, fondando e dirigendo a Buenos Aires per dieci anni, fino al 1930, la “Gazzetta degli Italiani”. Tornato al paese natale, muore nel 1935. Ma chi vuol sapere tutto, ma proprio tutto della movimentata vita di Eliso Rivera, può leggere, come se fosse un avvincente romanzo, la biografia che ha scritto su di lui Claudio Gregori, straordinario fabulatore di sport, nonché storica firma della “Gazzetta”, pubblicata nel 2018 dal Comune di Masio.
Il Giro d'Italia, tappa 19 -Masio, la Società Cooperativa di Mutuo Soccorso - foto Cervi
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