Oggi è una mattina di fine maggio e con tanto sole. Per capire se esiste, e resiste, un qualcosa di immateriale che appartiene a una Milano che si sente anche se non si vede, ho fatto due chiacchiere con Claudio Sanfilippo, cantautore, poeta e narratore. Buona parte della sua produzione, soprattutto musicale, ha scelto proprio il milanese come lingua del cuore e strumento espressivo. «Sono cresciuto nella Milano popolare anni Sessanta, che era una Milano intrisa di mescolanze, anche familiari. Quando andavo a casa dei miei nonni paterni sentivo parlare il catanese, mentre a casa mio padre, siciliano di origine, e mia madre parlavano tra di loro il milanese. Mio padre, Piero, faceva il pasticciere e mia mamma, la Jone, l’operaia. Nasco in zona Città Studi ma alla fine delle elementari, primi anni Settanta, ci trasferiamo al Gallaratese. Una città cresciuta in mezzo al nulla; casermoni che crescono prima che facciano le strade. Eravamo al confine della campagna. Da ragazzino andavo alla stadio di San Siro attraversando i prati».
Ho chiesto a Sanfilippo quando inizia a farsi un’idea della città in cui vive e a tradurla in immagini nelle sue canzoni. «Il milanese mi ha sempre accompagnato, fin dalle prime canzoni. Anche ricorrendo a una lingua mista, ho sempre agganciato i miei testi a una voce interiore che per me è sempre stata il milanese. E attraverso quei suoni ho intercettato le atmosfere, oltre che le storie. Alla fine degli anni Settanta, quando cominciavo a scrivere canzoni e altre cose, la città era sul crinale del cambiamento. Io l’ho vissuto in diretta, seppure da giovane uomo, forse ancora con uno sguardo ingenuo. Forse me ne accorgo di più adesso, a distanza di quarant’anni, del significato radicale di quella trasformazione. Ma fin da quei primi anni ho sempre applicato una specie di metodo “fotosensibile”: cerco di farmi attraversare dai contesti che vivo e provo a trasporli in testi e in musica».
Non è però un caso che questa lunga sedimentazione creativa dà i suoi frutti nel 2005, quando esce il disco che forse più rappresenta la capacità di Sanfilippo di catturare il “genius loci” di Milano: I paroll che fan volà. Dove all’esercizio “fotosensibile” si combina la rielaborazione della grande tradizione letteraria, e musicale, cittadina. Non è un caso che siamo partiti da Delio Tessa, e in bicicletta, per arrivare fino a qui: suoni e immagini del grande poeta milanese si ritrovano, rigenerati, quasi naturalmente reimpiantati, nei versi di molte canzoni di Sanfilippo. A cui, peraltro non manca la capacità di incorporare il resto della tradizione cantautorale da Jannacci allo Svampa soprattutto brassensiano, ma anche i grandi modelli della ballata anglosassone e nordamericana.
E il Giro, e il ciclismo a Milano? «Mio bisnonno Giosuè era grande amico di Tano Belloni, grande campione anni Venti. Mio padre era milanista e bartaliano, mentre da parte la famiglia materna erano tutti interisti e coppiani. Da queste contrapposizioni passionali è nata anche una mia canzone, Milan Coppi Guzzi e Alfa Romeo, che è un po’ uno spaccato popolare del tifo sportivo degli anni del dopoguerra. Con mio padre invece andavo a vedere le Sei Giorni alla Fiera e le riunioni al Vigorelli: mi ricordo Gaiardoni e Beghetto. Maspes non l’ho mai visto correre, però il papà del mio amico Gaspare aveva fatto l’allenatore di Maspes. Il ciclismo, infine, entra in un’altra mia canzone, Pavesi detto l’Avocatt, dedicata a Eberardo Pavesi, corridore dei primi del Novecento e poi per decenni direttore sportivo dei più grandi campioni, da Binda a Bartali, da Coppi a Baldini. Ho tradotto in canzone alcune pagine di un meraviglioso libro di Gianni Brera che prestò la sua penna per narrare la biografia del Pavesi. C’è molta Milano anche lì, soprattutto quella di Porta Romana, dove a fine Ottocento scorreva ancora il Redefossi».
I volumi Touring sul Giro d'Italia scritti da Gino Cervi: Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro.