Il primo albanese con cui mi capita di parlare, escluso il funzionario della dogana, il ragazzo della siguracion e un cameriere di Durazzo, è un rigattiere. Lo incontro nell’antico bazar di Kruje. Ha la faccia scavata, e sembra emanare un odore di cuoio e di tabacco. Una manica della camicia gli penzola vuota da una parte. Vende vecchie riviste del periodo della dittatura, un libro fotografico su Hoxa, pacchetti di cartoline e altre minutaglie della memoria. Nella teca sotto al banco espone spillette d’ogni forma. Gli chiedo quanto costano una medaglia del partito e un braccialetto con l’aquila nera a due teste. Poi mi accorgo di un ciondolo con l’immagine di Skanderbeg/Skanderbeu, come lo scrivono qui, sotto tutte le statue e all’entrata del museo; lui si limita a osservarmi. Indico il Garibaldi albanese, l’eroe nazionale della resistenza contro i turchi, e ripeto la formula più abusata delle nostre compravendite: «How much?» Mi risponde in italiano, dopo un interminabile silenzio, con un’altra domanda. Vuole sapere il motivo del mio viaggio. Chissà se lo chiede a tutti, ma per me è come se mi avesse appena detto “Perché sei tornato, dopo tutto questo tempo”. E, in effetti, sono il primo della mia famiglia che ritorna in Albania dopo cinque secoli.

«Noi abbiamo avuto due grandi tragedie – continua lui, senza aspettare –, il Cinquecento, e gli anni Cinquanta del secolo scorso: ne hanno uccisi tantissimi, e c’erano i campi». Ha la voce ferita di un reduce, di un mutilato di guerra, e non si capisce più di quale epoca parli, se della dominazione ottomana o del regime stalinista, ma non ha importanza. «Le cose ora vanno un po’ meglio, – aggiunge –, ma quando viene una delegazione, da Istanbul, spostano i busti dell’eroe e li sostituiscono con delle piante». Gli confido allora il mio cognome. «È del sud, viene dalla Grecia» commenta, e mi augura buon viaggio. Esco dalla sua bottega con addosso questa strana sensazione di essere appena approdato a un territorio di indovini e di superstiti. Di fronte sono appese maschere antigas, uniformi e camicie militari: alcune hanno un buco, all’altezza del cuore o su un fianco, e un alone rossastro intorno. Una fila di elmetti con la stella rossa mi accompagna fino all’uscita del mercato. Da quando ho letto, ne La scoperta della currywurst di Uwe Timm, la scena in cui un fedelissimo del regime, alla caduta del nazismo, si veste di tutto punto, con la divisa della grande guerra, e i distintivi, e si impicca, ma l’elmetto gli cade dalla testa e si ribalta per terra, non posso più guardarne uno senza immaginare un pitale rovesciato.

Piazza Skanderbeg a Tirana
Piazza Skanderbeg a Tirana - foto Shutterstock

Verso Tirana, una tartaruga ci attraversa la strada. Avanza con un passo svelto, per quello che può, ma leggermente claudicante. Forse ha una zampa spezzata o offesa. È nel punto in cui le automobili vanno più veloci, al centro della carreggiata, e chissà quanto le servirà ancora per giungere fino al guardrail e mettersi in salvo. Eppure, mentre la evito e la lascio alle spalle, insieme all’apprensione per la sua sorte, mi sorprende una sorta di fiducia. Che ce la possa fare. È la stessa speranza che mi restituisce Tirana. Ci appare come una città giovane e affollata, una città che ha smesso di frequentare il passato e cerca di frequentare il futuro, avrebbe detto Tabucchi. Il passato, in realtà, è ancora ben riconoscibile, nell’impianto urbanistico, nelle piazze magniloquenti, nei bianchi palazzi della cultura di modello sovietico e cinese, nella casa del Fascio di Gherardo Bosio che il Fascio non fece in tempo a inaugurare. Ma il futuro, qui, è più forte: cambia natura alle piramidi del potere, riempie di bandiere statunitensi i viali delle parate e dell’impero (oggi boulevard dei Martiri della Nazione), per l’imminente visita dell’ex presidente Usa Bill Clinton, trasforma in un museo i bunker sotterranei in cui dei dissidenti scorrono liste e incartamenti, ma nonostante abbiano ora un nome, e se ne possano vedere le celle, le loro voci, le voci degli altri, che una volta si ascoltavano attraverso un microfono spinto in un buco scavato nel muro, ci giungono flebili, e distanti, come da una cantina. Il futuro adesso pianta grattacieli ovunque, una vegetazione che si espande a macchia d’olio e che ha già modificato radicalmente lo skyline della capitale. Costruzioni che ricordano alberi giganteschi, edifici progettati dai migliori studi di architettura europei, residence e hotel di oltre trenta piani, stadi rifabbricati sulle vecchie fondamenta, i lavori per un auditorium modernissimo in pieno centro. E come un’allegria, nell’aria, l’attesa di una bella stagione. (….)

La statua dedicata a Skanderbeg nel centro dalla capitale Tirana
La statua dedicata a Skanderbeg nel centro dalla capitale Tirana - foto Shutterstock
Il Museo Nazionale di storia è sormontato da un mosaico dell’epoca socialista che ricorda le battaglie per indipendenza dell'Albania
Il Museo Nazionale di storia a Tirana è sormontato da un mosaico dell’epoca socialista che ricorda le battaglie per indipendenza dell'Albania - foto Shutterstock

Così vicina, così lontana. La religione musulmana la riconosci dalle torri dei minareti e dalla voce del muezzin che canta tutte le sere, alla stessa ora. Ma anche dai cani che dormono sui marciapiedi e ti chiedono con discrezione il cibo ai ristoranti all’aperto, nella speranza che qualche premuroso cameriere gli prepari un piatto e lo lasci in un angolo. Sono uguali a quelli di Istanbul, e come loro mansueti e tranquilli, perché il Corano vieta di tenere animali domestici in casa, ma tutti se ne occupano: ogni negozio ha una vaschetta d’acqua sulla porta. 

Ma per il resto la religione non dà l’idea di essere il primo elemento identitario di questo popolo, che ha tante anime ma una sola appartenenza, la propria terra. Il custode della Moschea del Re, a Berat, ci dice che le donne albanesi sono le più libere di tutto l’Islam, non portano il velo e possono pregare una volta sola al giorno. Nessun segno di fondamentalismo. I culti convivono tra loro, in totale armonia, l’unica stranezza, per noi, è incontrare così poche chiese, e per lo più soltanto greco-ortodosse. Mezzo secolo di ateismo di stato, alla lunga, ha forse agito come un vaccino contro gli estremismi, compreso sé stesso. «I tappeti li avevano tolti tutti – conclude il custode –, durante il comunismo ci giocavano a ping pong». 

Il centro storico di Berat, città patrimonio Unesco - foto Shutterstock
Il centro storico di Berat, città patrimonio Unesco - foto Shutterstock

Così vicina, così lontana, mi ripeto: vista dall’Italia, l’Albania è ancora un libro intonso. Da quasi una generazione dalle sue latitudini non arrivano più corrispondenze, se non qualche video sui social e qualche raro articolo. Gli ultimi dispacci che contenevano un desiderio di comprendere e anche un coinvolgimento personale li avevano spediti Alexander Langer e Alessandro Leogrande. Ma in fondo anche la loro era stata un’eccezione, rispetto alla nostra abitudine all’oblio. Per quale ragione abbiamo tenuto la testa ostinatamente girata dall’altra parte, sino al punto di farci venire il torcicollo? Per un vago e residuale imbarazzo per l’avventura coloniale? Per la rimozione senza tentennamenti che l’Italia ha operato verso questo vicino così increscioso durante i cinquant’anni della dittatura di Hoxa? Per l’onda di paura che ci hanno provocato le navi di profughi del 1991 e che non ha mai smesso di alimentarsi? O soltanto per non provare mai più il fastidio di vederci riflessi su uno specchio molto più opaco del nostro? 

Il resto del lungo racconto di Fabio Stassi dall’Albania si trova sul numero di dicembre 2022 di Touring.

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