
Appassionata di viaggi, di fotografia, i cinema e di vela, fan di Virginia Woolf e di Ridley Scott, tennista e “carota girl”, la chef triestina ha scelto il suo buen retiro gastronomico (dal 2015 con un stella Michelin), nel profondo Friuli. Un isolamento senza nostalgie ma immerso nella natura e nella contemporaneità. E mantenendo sempre “l’occhio innamorato del turista”. Il viaggio della vita è stato forse uno dei più brevi ma certamente il più importante. Dall’isola di Mazzorbo, a Venezia, a Vencò frazione di Dolegna del Collio (Go), dal ristorante Venissa al ristorante L’Argine, il primo locale di sua proprietà. Poco più di 130 km di strada, dalla laguna alla campagna profonda tra i boschi e i vigneti del Friuli a poche centinaia di metri dal confine con la Slovenia.
La chef Antonia Klugmann però ne ha fatta di strada e di viaggi prima di stabilirsi in questa bucolica oasi dove ha costruito da zero il suo locale pitturato di un verde tenue, a ridosso di un rustico mulino di pietra del 1650, poi deposito di armi durante le due guerre mondiali, circondato da un vasto giardino selvatico e da un florido orto.

Come mai ha deciso di stabilirsi proprio in questo luogo, circondato da una natura rigogliosa ma lontano da tutto e proprio sul confine?
Per alimentare la propria creatività, e non solo in cucina, credo che si debba anzitutto conoscersi. È quello che ho capito, a 26 anni, quando ho deciso di fare l’imprenditrice della ristorazione. E cioè che mi avrebbe aiutato molto vivere immersa in un ambiente naturalisticamente
bello. Poter controllare l’estetica del mio luogo di lavoro, per creare un ambiente armonioso. Essendo appassionata anche di design e di architettura qui ho potuto finalmente costruire uno spazio che corrispondesse pienamente al mio gusto. È stato un percorso lungo che ha a che fare con la mia visione del mondo e si riflette immediatamente sull’identità della mia cucina e sugli ingredienti locali che utilizzo. E ci sono riuscita.
Questo percorso lungo e che parte da lontano, dalla sua Trieste, ha a che fare con il suo legame con questi territori?
Ho scelto il confine ma non è così distante da Trieste. Anzi, non c’è zona più coerente con Trieste del Collio. Siamo attaccati al confine con la Slovenia ma il confine, sia qui sia a Trieste, non è mai stato vissuto come un limite ma anzi sempre come una apertura. Da secoli il Nordest è figlio della grande Storia, frutto di divisioni territoriali, ma anche di fertili commistioni etniche e linguistiche. Si tratta di saper interpretare questo territorio, sapere come relazionarcisi. Oltre che un elemento fisico e geografico il territorio è per me un luogo immaginario e immaginato. È anzitutto un
fatto culturale. E la scelta di vivere a Vencò non ti deve porre in una posizione periferica. Il fatto di vivere isolato, in provincia, è stata una scelta figlia della contemporaneità. Tu puoi restare provinciale anche a New York o non esserlo per niente anche stando in un posto come questo. L’importante è non essere un copiatore. E io non sono una follower.
Conosce bene questo territorio? Riesce a prendersi del tempo libero per scoprirlo?
Io abito vicino a Cividale, a un quarto d’ora da qui e in un posto anche più selvaggio di questo. Per anni ho camminato e corso tre quattro volte a settimana lungo le valli selvagge del fiume Natisone. Ho potuto osservarlo bene e in maniera consapevole. E trovo che studiare il contesto in cui si lavora sia fondamentale. Anzi mi domando come si possa fare il cuoco e non conoscere l’ambiente che lo circonda. Ecco perché il mio ristorante è circondato da un grande giardino selvatico, l’unico giardino che abbia un senso oggi. Il giardino pulito, perfetto, pettinato, senza erbacce, irrigato e piantumato da alberi che magari non c’entrano niente con l’ambiente circostante, non ha più alcun significato. Io sono una grande fan di due esperti di cultura paesaggistica come Antonio Perazzi e Pia Pera. Condivido la loro visione.
Vede qui intorno gli alberi da frutta? Sono tutti vecchi ma sani, l’erba di fondo è tutta alta, non c’è diserbo. Così le erbe selvatiche che uso in cucina le posso utilizzare senza andarle a cercare in giro. Come anche i fiori, l’achillea filipendola, l’acetosa, la piantaggine, la cicorietta… Crescono liberamente tutte intorno all’orto. Le piante non hanno bisogno dell’uomo. Più sono indipendenti più sono sostenibili.

È questo il senso della ricchezza di un suolo che vuole avere un futuro. Non c’è bisogno di irrigare, del lavoro meccanico, della mano dell’uomo, di aggiungere niente al terreno. Certo è un processo che ha bisogno di conoscenza e soprattutto non ci deve essere la presunzione che tanto, qualunque cosa accada, l’uomo può aggiungere, può fare. Ed è questo processo che dobbiamo tutelare. Spesso quando l’uomo entra nella natura finisce per modificarla e fare danni. Pretende anche con arroganza di sapere, senza vederne la poesia.
Come la sua città, anche lei è frutto di variegati incroci etnici e culturali oltre che gastronomici. Un nonno di Molfetta e uno di Leopoli ma nato a Zurigo, una nonna triestina di Muggia, in Istria, una di Ferrara. Riassume tutti i punti cardinali: è per un quarto ucraina, un quarto emiliana, un quarto triestina e l’ultimo quarto pugliese. Conosce le città delle sue origini?
Sono stata in Polonia (tra le due guerre Leopoli fu polacca, ndr) e anche a Ferrara, sono stata molte volte anche in Puglia ma curiosamente mai a Molfetta, dove ha passato l’infanzia mia madre. Anche se il mio olio viene dall’uliveto che è appartenuto alla mia famiglia.
Anche in cucina usa a volte materiali e strumenti che vengono dalle varie tradizioni familiari? Sì, sono un crogiolo ma non ho nessun rapporto malinconico con queste tradizioni, anche culinarie.
Il mio è solo un recupero gioioso, è un gioco. Non è nostalgia, è riuso ma è anche voglia di modernizzare. Persino nell’uso degli strumenti di cucina. Uso per esempio l’acciaio e non più il rame ma è vero, utilizzo anche padelle della nonna… Io sono una grande fan di Enzo Munari e della sua idea sulla costruzione degli oggetti. Il design, come l’arte, non è mai un orpello. L’arte è sempre funzionalità, la bellezza è sempre funzionalità. Non deve mai essere to show off e non deve servire a solleticare l’ego del cuoco. Anche nei miei piatti, quelli che mi rappresentano, tutto è funzionale, così come nei miei gesti in cucina.

Prima di scoprire la sua passione per la cucina ha fatto tutt’altri percorsi. Liceo a Milano, giurisprudenza all’università, nessuna scuola alberghiera. Ed è stata fin da piccola una appassionata viaggiatrice.
Grazie alla disponibilità dei miei genitori fin da bambina sono potuta andare in giro, anche da sola, a cominciare dal college in Irlanda. Poi ho praticato fin da ragazzina la vela. A Trieste siamo tutti velisti. Anni di scuffie nel golfo della città sui piccoli Optimist poi, sull’esempio dei miei genitori, ho scoperto il Centro Velico di Caprera (fondato dal TCI, ndr). Lì tutto magicamente mi veniva naturale, vista la mia esperienza. Così ho via via seguito numerosi corsi fino a diventare istruttrice. E pensare che all’inizio avevo paura del mare e del vento e non ero per nulla competitiva. Ma la lezione dell’andar per mare è stata fondamentale. In barca si deve rispettare l’ignoto e averne timore. Si impara che ci si deve affidare agli elementi della natura, al vento che ti dà la velocità ma non va sfidato, va esplorato con prudenza e attenzione.
Ora purtroppo non ho più tempo per la vela e siccome amo molto lo sport pratico assiduamente il tennis, tra il servizio di pranzo e cena. E sono una grande fan di Jannik Sinner, mito totale, ma anche di Paolini, Cobolli, Nardi, Berrettini… un mondo bellissimo. Amo molto lo sport perché ti mette davanti ai tuoi limiti e ti insegna anche come superarli, almeno alcuni.

Grazie al suo lavoro viaggia moltissimo. Da Hong Kong all’Australia, agli Stati Uniti… ma nel suo libro Di cuore e di coraggio sostiene che bisogna sempre mantenere “l’occhio del turista”. Cioè?
Anche quando torno a Trieste cerco di rivederla come se fosse una cosa straordinaria, come se fosse la prima volta. E questo mi permette di rinnovare il mio rapporto con la città. Mantenere la meraviglia. Come scrive Massimo Recalcati, bisogna mantenere “l’occhio dell’innamorato” ovvero una relazione sempre attiva con quello che ti circonda. È lo stesso impegno che ho con il mio lavoro. La cucina è l’amore della mia vita e cerco di affrontarla proprio con l’atteggiamento di una innamorata. Ma devo anche confessare che non sono una persona che viaggia in modalità vacanza. Trovo difficoltoso il fatto di partire per uscire dalla mia dimensione. Mi trovo così bene in questa che non sento l’esigenza di sfuggirla. Non ho bisogno di staccare, di evadere. Il mio tempo libero è integrato con la mia vita. E poi i viaggi di lavoro mi consentono di entrare più facilmente nelle diverse realtà. Quando sono in cucina con i cuochi e i lavapiatti del luogo, mi metto in modalità ascolto e dalle persone che lavorano con me imparo moltissimo. Per quattro anni ho avuto un sous chef giapponese e questo mi ha consentito di entrare in contatto diretto con una cultura completamente aliena dalla mia. Alessandro, il sous chef di Bergamo che c’è oggi, ha lavorato nei migliori ristoranti di New York e di Parigi ed è diventato un punto di riferimento importante per conoscere la cucina e la cultura francesi. E io imparo da lui molto volentieri.
Tra le sue passioni c’è anche la fotografia.
La fotografia mi ha permesso di esplorare sia piatti sia territori. Il mio fotografo di riferimento è stato Luigi Ghirri, un artista capace di tirare fuori la poesia da un paesaggio industriale. Nel suo libro Viaggio in Italia fa un’analisi del territorio dal punto di vista estetico che è molto vicina al mio modo di pensare la cucina. Ho una macchina fotografica vecchia di 12 anni, ma non ha importanza il mezzo, direbbe Ghirri. È l’occhio che conta.

Lei ha scritto che quando inizia il servizio, in cucina cambia l’atmosfera, si percepisce la tensione. È come uno spettacolo teatrale. È come andare in scena. Lei ama il teatro e il cinema?
Sì fin da bambina. Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti con la loro estetica mi hanno condizionato. Ma sono anche frutto della mia generazione e quindi appassionata di Wes Anderson, di Sofia Coppola. E mi sento figlia di Ridley Scott. Ho adorato i suoi film, Black Rain, I duellanti… Ed è successo qualche settimana fa di vedere arrivare il regista con la troupe. Stava girando in zona il suo ultimo film (The Dog Stars, ndr). Sono venuti a mangiare da me. Gli attori si aspettavano di trovare una loro fan e invece io mi sono precipitata a salutare Scott. Il suo Thelma e Louise con quella colonna sonora… devo dire che, da donna, mi ha molto condizionato. Così come i libri di Virginia Woolf sono stati fondamentali. Una stanza tutta per sé con la metafora sulla condizione femminile mi ha restituito il senso di intendere il femminismo. Il lavoro è fondamentale per una donna, la libertà te la devi conquistare lavorando. Proprio come ha fatto lei. Non credo nelle quote rosa ma nella meritocrazia, anche se capisco che il sistema maschile è duro da scardinare. Però nella mia cucina ormai quasi il 50 per cento della brigata è costituita da donne.
Lei ha conquistato una stella Michelin ed è stata anche protagonista di MasterChef in tv. Come vede questa spettacolarizzazione mediatica del ruolo dei cuochi?
La cosa che meno mi interessa è la questione egotica. Quello che mi piace è lanciare un sassolino nello stagno, dare degli strumenti utili a capire il mio lavoro, ma raccontando anche l’ambiente, il territorio. I cuochi devono esserne consapevoli e devono sentirsi responsabili. Non devono parlare solo di sé ma raccontare e rendere partecipi le persone di un mondo che può essere veramente complesso.